La Divina Commedia (articolo in continuo aggiornamento)

Articolo in continuo aggiornamento.


Ultima modifica (2023-07-17):

Aggiunta la parte relativa al canto XIX Inf.


Modifiche precedenti:

Aggiunta la parte relativa al canto XXXI Par.

Aggiunta la parte relativa al canto XIII Par.

Aggiunta la parte relativa al canto XXXII Purg.

Aggiunta una parte relativa al canto XXIV Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto XVIII Purg.

Aggiunta la parte relativa al canto XXVII Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto XXV Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto XVI Inf.

Aggiunta la parte sul Libro delle visioni e rivelazioni della tedesca Matilde di Hakeborn.

Aggiunta la parte relativa al canto V Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto VI Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto XXVI Inf.

Aggiunta un’ulteriore parte relativa al canto XXIV Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto XXIII Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto XXVIII Inf.

Aggiunta un’ulteriore parte relativa al canto XXVIII Inf.

Aggiunta la parte conclusiva relativa al canto XXVIII Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto XXXIII Inf.

Aggiunta un’ulteriore parte relativa al canto VI Inf.

Aggiunta la parte relativa al canto VII Inf.

Aggiunta la parte relativa alla donazione di Costantino. (2023-05-29)

Aggiunta la parte relativa al canto X Inf. (2023-05-29)

Aggiunta la parte relativa al canto XV Inf. (2023-07-02)



Non si può ignorare il fatto che il paranormale interviene nella stesura della Divina Commedia da molti punti di vista. Nel primo canto del Purgatorio, l'autore vede una costellazione che può essere osservata solo dall'emisfero australe. Dante si proclama profeta e definisce la sua opera più rilevante come un libro scritto per volontà divina e che salverà l'umanità. Sin da bambino Durante Alagherii soffriva di allucinazioni e la cosa, a quanto pare, gli procurava un gran disagio, giacché lo sottolinea ripetutamente da adulto. Gli ultimi canti del Paradiso sono stati rinvenuti dal figlio Jacopo dopo che Dante gli parlò in sogno. Le altre opere dantesche sono meno appassionanti, le rime talvolta scontate. Un tipografo di Venezia nel secondo Cinquecento giustamente incollò l’epiteto di Divina alla Commedia. Probabilmente Dante è solo la mano materiale usata per scrivere l'opera. Il pensiero che l'ha generata non sembra appartenere a questo mondo.


All'opera portentosa del poema sacro "han posto mano" realmente "e cielo e terra". Il poeta vi profonde a piene mani — a seconda delle opportunità offertegli via via da un disegno sconfinatamente vasto, che, non pago di abbracciare l'universo intero, comprende lo stesso Dio — tutti i tesori inesauribili di una natura meravigliosamente e svariatissimamente dotata, di una scienza accumulata con lungo ed amoroso studio, di una vita fatta esperta se altra mai dalla sorte "E degli vizi umani e del valore". Dar conto particolareggiato di un contenuto così straordinariamente complesso e moltiforme, come si potrebbe qui mai? Però, invece che accostarmi al mio scopo, mi parrebbe di allontanarmene, se mi fermassi a discorrere di questo o quell'elemento, di questa o quella rappresentazione speciale. Farei come chi, per vedere il Giudizio Universale di Michelangelo, appoggiasse il naso alla parete.

Nella stessa Commedia è scritto che Dante si disinteressò di Beatrice alla dipartita della donna. Non si riesce pertanto a capire come Dante abbia potuto ritrovare la passione per la donna ormai deceduta, di cui si era già disinteressato col trascorrere del tempo. È altrettanto arduo comprendere come Dante sia addirittura riuscito a trovare la voglia di dedicarle il più intenso e complesso poema di tutti i tempi (passati e futuri), ben coscio della fatica a cui si sarebbe dovuto sottoporre, pur sapendo che lei non avrebbe potuto leggere l’opera. L’autore ha compiuto questo viaggio per trovare la retta via e per farla trovare a tutti noi.

Il 25 luglio 2007, durante lo spettacolo teatrale "Tutto Dante", introducendo il canto III dell'Inferno, il grande dantista Roberto Benigni, rivolgendosi al pubblico, afferma quanto segue (riporto integralmente le sue parole):

«Dante c'è stato!

Lui dice: "Non vide meglio di me chi vide il vero.".

Voi dovete crederci!

Bisogna fare una sospensione, diciamo, dell'incredulità e pensare che Dante c'è stato; lo dice mille volte. Lo giura! Lo giura sulla cosa che ha più sacra, che è la Commedia stessa. Lo giura, quindi c'è proprio stato in quei regni di là Dante, non è che l'ha sognato.

Nulla è più reale di questo racconto così fantastico. È realissimo, lo tocchiamo ed è una bellezza incommensurabile. E poi il coraggio, la grandezza!»


Durante l’esegesi del canto X dell’Inferno, per lo spettacolo teatrale "Tutto Dante", Benigni afferma quanto segue (riporto integralmente le sue parole):

«Nessuna opera è perfetta come la Divina Commedia.»


Una volta Andrea Tosatto ha scritto che nel 1947 l'ammiraglio Byrd scoprì, in Antartide, tra i ghiacci, un'oasi verde a clima mite e vegetazione lussureggiante, grande tre volte la Francia. L'enciclopedia Treccani dedica una voce alla scoperta.

Nella Divina Commedia, canto 28 del Purgatorio, Matelda spiega a Dante pellegrino che esiste agli antipodi delle terre emerse un'isola verdeggiante che semina le terre da noi abitate giacché i semi delle piante che crescono su tale monte isolato vengono sospinti dal vento causato dal primo mobile, dal primo cielo, nella stratosfera fino alle terre più meritevoli di ricevere i semi sacri.


Il paradiso terrestre doveva esser vetta di un monte isolato di straordinaria altezza; di un monte che certuni (chi conosce la Divina Commedia capisce subito il motivo dell'avvertire siffatta particolarità), per sottrarne la cima ai turbamenti atmosferici, facevan spingere il capo fin dentro al cielo lunare. Orbene: Dante prese questo monte, s'appigliò al partito unicamente ragionevole di collocarlo in mezzo al mare e agli antipodi e dintorno alle sue pendici dispose il purgatorio, ripartendolo, colla sua mente geometrica, in altrettanti ripiani o cinture di forma regolarissima. Curiosa la rispondenza che cotale concezione viene ad avere con una che s'incontra nel Libro delle visioni e rivelazioni della tedesca Matilde di Hakeborn: curiosa assai e non casuale.


Nella cantica del Purgatorio, è scritto che il Sole è una sfera che gira in senso circolare come fosse mossa da un fanciullo e che il firmamento è fatto di stelle che ruotano sopra di noi in senso circolare.

Inoltre, sempre nel Purgatorio, è scritto che le stelle cadenti sono dovute ai vapori che vengono sprigionati da terra e che salgono verso il firmamento, proprio come da conoscenze aristoteliche.


Resta il paradiso. Se nella pittura dei tormenti — temporanei o perpetui, non fa differenza — i visionari che precedettero Dante avevano spesso dato prova d'ingegno e di facoltà inventiva, nel descrivere la beatitudine celeste essi erano rimasti così rasente terra, da muovere a pietà. Non erano davvero atte a un volo così ardito le loro ali di struzzo. Però il loro paradiso si riduceva per lo più a un mero paradiso terrestre, o ad una povera copia della Gerusalemme apocalittica. Che se taluni avevano osato slanciarsi negli spazi, all'ardimento non aveva corrisposto l'effetto.


Per ben intendere ciò che sono per dire, si richiami alla mente come si concepisse l'universo dal medioevo, come si fosse concepito per solito dagli antichi, come continuasse a concepirsi fino a che le idee copernicane non mandarono ogni cosa a soqquadro. La terra — questo povero granellino di sabbia lanciato negli spazi — s'immagina ferma e salda, e nientemeno che centro al gran tutto; le stelle fisse sono disposte in una specie di strato sferico, che potremo rassomigliare a ciò che è in un arancio la buccia; lo spazio compreso tra questa regione superiore e la terra si suppone divisa in varie sfere racchiusa l'una nell'altra, alla maniera di certe palle di legno che s'aprono, delle quali la prima ne contiene una seconda, la seconda una terza, e così via. In ciascuna sfera, fatta astrazione dal nucleo centrale, ossia dalla terra, e dal suo involucro immediato, compie i suoi moti un pianeta: partendo dal basso, successivamente la luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno. Al di sopra del cielo delle stelle fisse, ragioni filosofiche e matematiche avevano portato a congetturarne un altro, che fu detto "primo mobile" o "cristallino"; e sopra a questo, che veniva ad essere nono, la speculazione cristiana ne mise ancora un decimo, chiamato "empireo".Nel cielo empireo i teologhi ponevano Dio; in esso o nel sottoposto cristallino, i beati. L'autore accettò l'idea che i beati avessero tutti quanti sede nell'empireo; ma suppose che nondimeno si manifestassero nei cieli sottoposti, tra i quali si trovassero ripartiti a seconda delle virtù o delle tendenze che avevano spiccato in loro durante la vita. È all'astrologia giudiziaria, non ripudiata nient'affatto entro certi limiti nè da Dante nè dagli stessi teologi, che si chiedono i principii direttivi della ripartizione. Però le anime che l'influsso della stella di Venere al momento della nascita aveva portato ad essere amorose, in Venere appunto dovranno apparire.


Nel canto II del Paradiso è scritto che la Luna, che è un corpo aleatorio, attraversabile ed immateriale, presenta delle macchie scure perché la virtù emanata dai cieli superiori è più o meno forte a seconda di come viene recepita dalle varie zone del pianeta. Le macchie lunari non sono dunque mari o crateri creati dall'impatto con gli asteroidi, dovuti cioè all'assenza di materia nel suolo, ma proiezioni più deboli della virtù e del bene originari. Nel cielo più alto, il decimo, risiede l'entità divina, che a sua volta si dirama verso il primo mobile, per procedere alla proiezione verso il cielo delle stelle fisse (la Scolastica, diversamente, prevedeva l'esistenza di nove sfere celesti). Queste emanano la virtù originale, proiettandola verso le stelle dei piani inferiori, stelle dette anche pianeti, fino a raggiungere la Luna ed il Sole (anch'essi tollerano la definizione di pianeti).

Beatrice smentisce che si tratti di crateri con un esperimento: si prendano tre specchi e si pongano due specchi lateralmente alla medesima distanza dall'osservatore; si metta un terzo specchio davanti all'osservatore, ad una distanza maggiore; si prenda una fonte luminosa e la si posizioni dietro l'osservatore. Si potrà constatare che la fonte luminosa viene riflessa, in uguale misura, da tutti e tre gli specchi.

Viene inoltre smentita la teoria secondo cui la Luna sarebbe fatta di materiali di densità diversa, come il corpo animale è costituito da parti magre e grasse, con l'esempio dell'eclissi lunare, in cui il Sole, una volta recatosi al di là della Luna, diventa invisibile perché la sua immagine viene coperta dal corpo lunare, con la luce solare che viene riflessa, come se la superficie lunare fosse un vetro piombato, uno specchio insomma, quindi la luce solare non trapassa il corpo lunare.


Nel canto 29 del Paradiso, Beatrice menziona le acque "di sopra" che sottostanno al primo mobile. Usando la Nikon P900, chiunque può constatare l'incresparsi della superficie delle stelle, come se, effettivamente, vi sia uno strato di acqua al di sotto delle stelle. La cosa non accade se si punta l'obiettivo sulla superficie del Sole, della Luna e dei pianeti, che appunto sono nei cieli inferiori.


Nel V canto dell'Inferno l'oscurità è tagliata da una scia di anime gru. Allora: chi sono queste anime gru? A domanda di Dante, Virgilio risponde con affabile onniscienza. Così apprendiamo che la prima è Semiramide, la leggendaria imperatrice poliglotta, la quale, succeduta al marito Nino, regnò sulla terra che ‘l Soldan corregge, cioè sulla città che ora è retta dal sultano d’Egitto (equivoco toponomastico: in effetti il Soldano «correggeva» la Babilonia egiziana, che è poi il vecchio Cairo; lei, a suo tempo, la Babilonia mesopotamica): donna talmente depravata, questa Semiramide, che per abrogare l’ignominia a cui s’era ridotta, decretò la liceità di qualsiasi sfrenatezza; insomma, come si dice: lìbito fé licito in sua legge. Tanto è scritto nelle Storie di Paolo Orosio, divulgatissime e accreditatissime per tutto il Medioevo. La truce fiaba menzionata da antichi chiosatori non sappiamo dove Dante possa averla letta, se mai l’ha letta.


Passiamo al canto VI dell’Inferno, quello dei golosi. Al passaggio dei poeti, una delle anime sdraiate e impastate di fango si tira a sedere di colpo, e interpella Dante: «O tu che ti lasci pilotare per questo 'nferno, prova a riconoscermi: tu sei venuto al mondo prima che me ne andassi io (o, in termini grottescamente iperconcreti: tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto)».

Dante però non lo riconosce: «Lo strazio che ti sfigura forse ti cava dalla mia memoria: fatto sta, che non mi sembra di averti mai visto. Dimmelo tu, chi sei, collocato in un posto così deplorevole e sottoposto a una pena tale, che, s'altra è maggio (maggiore, dal nominativo latino "maior"), nulla è sì spiacente (nessuna è tanto repellente e umiliante)».

Il dannato la gira così: «La tua città, che ormai trabocca d'odio, mi ospitò per il tempo della mia vita (bei tempi!). Voi concittadini mi chiamavate "Ciacco". Per il pernicioso peccato della gola, come tu vedi, alla pioggia mi fiacco, mi macero. E non sono il solo: tutti questi altri patiscono il medesimo castigo per la medesima colpa». E chiude.

Chi fosse questo Ciacco nella cronaca fiorentina del secondo Duecento, non possiamo far finta di saperlo. Il nome stesso non si sa che sia: come diminutivo di «Iacobus» non torna; che valga «porco» come si è preteso non risulta. Fragilissimamente fondata è, d'altronde, la tentazione di identificare il nostro con tal Ciacco dell'Anguillaia, di cui vecchi codici conservano il nome e un paio di contrasti villerecci.

Mentre il Ciacco che compare nella IX giornata del Decameròn è certo lui, infatti manifestamente gli fa il verso: «uomo (...) dato tutto al vizio della gola» tanto che «se chiamato era a mangiare, v'andava, e similmente se invitato non era (...). Fuor di questo, egli era costumato uomo, ed eloquente e affabile e di buon sentimento».

Insomma, un formidabile gourmand e sbafatore emerito, ma non privo di tratto. Nel terzo cerchio infatti è punita la dannosa colpa de la gola.

Aggiudicare alla Gola la sinistra grandezza del peccato capitale potrebbe sembrarci una vecchia esagerazione. Ma nell'Europa medievale, vessata da carestie ricorrenti, l'ostentazione mondana del vizio solitario della gola, quanto più si sapeva indecente, tanto più incorreva in eccessi oltraggiosi.

Dante, che da buon cristiano coltiva i valori simbolici della mensa, intitola Convivio il trattato in cui distribuisce agli illetterati le sue laboriose cognizioni, quasi briciole e molliche del pane degli angeli. E – sebbene, in consonanza con i Dottori della Chiesa, contesti l'opinione di quei Padri che rubricavano il peccato originale sotto il vizio della gola – l'egoismo viscerale e impudico dei golosi gli procura un ribrezzo lancinante, che acumina la sua intelligenza psicologica.

E non andrà trascurato come, in questi versi di Commedia, l'abbrutimento dei Golosi, che la loro pena, «spiacente» quant'altra, perpetua in iperbole, chiami immediatamente in causa, per bocca d'un ghiottone fiorentino, l'abbrutimento di Firenze.

Messo in campana dall'ammicco spregioso del concittadino alla comune concittadinanza, il pellegrino Dante torna a rivolgergli la parola con la stessa ansiosa cortesia e quasi con le stesse parole con cui aveva interpellato Francesca (ma dimmi...). E gli pone tre quesiti: 1) dove andranno a parare i cittadini della città partita (divisa, spaccata a metà); 2) se lì c'è ancora qualche persona giusta; 3) per quale motivo Firenze è afflitta da tanta discordia.

Quesiti dobbiamo ammetterlo strani e male indirizzati. Già, infatti, se il primo riguarda il futuro di Firenze, e rientra (come vedremo meglio di qui a quattro canti) fra le competenze degli inquilini dell'aldilà, gli altri due, che vertono sullo stato attuale della città, sembrano proprio rivolti a un interlocutore sbagliato: che ne sanno i morti del presente? Assolutamente nulla (come ci spiegherà, appunto, di qui a quattro canti il grande Farinata), e comunque molto meno di un Dante che è appena arrivato dalla crosta della terra.

In ogni caso, dopo aver risposto dettagliatamente alla prima domanda, Ciacco sulle altre due non si dilunga: «Di personaggi come si deve ce n'è giusto un paio (ma chissà se "giusti son due" significa proprio questo): comunque nessuno li ascolta. Quanto ai motivi della discordia, be', le faville c'hanno i cuori accesi sono tre: superbia, invidia e avarizia» (che, nel caso, andrebbero forse ridotte di scala in arroganza, rancore e avidità). E, pronunciate queste lagrimevoli parole, la voce del gentiluomo s'interrompe.

Lagrimevoli, le parole, e allarmanti. Specie quelle spese in risposta al quesito 1 (dove andranno a parare i cittadini della città partita?). Parole che contengono la prima delle funeste profezie formulate dai defunti a carico del pellegrino poeta. Un po' sibillina, come tutte le altre, e, stando a quanto viene precisato da Sermonti, come tutte le altre, retroattiva.

Infatti, ragionevolezza insegna che le facoltà divinatorie attribuite da Dante ai suoi interlocutori d'oltretomba non possono esercitarsi che su eventi intercorsi fra la data dell'immaginario pellegrinaggio e il momento in cui il poeta ne détta il resoconto immaginario. Cioè come abbiam visto fra la prima primavera dell'anno 1300 e... Già: bisognerebbe almeno sapere quando Dante Alighieri ha messo mano alla Divina Commedia. Lo stesso Sermonti ammette che non lo sappiamo, scrivendo "Sia chiaro: non si sa". Noi ci atterremo al buonsenso della tradizione, che suggerisce il 1306-1307. Sennonché, il solito Boccaccio retrodata i primi sette canti dell'Inferno al 1301: tesi per la quale diversi specialisti, sedotti dalla elegante gracilità di alcuni indizi, non nascondono una certa propensione.

Visto che l'indizio più consistente starebbe proprio in questa profezia di Ciacco, verifichiamo il minimo necessario.

Dunque, il ghiottone ha asserito che i Fiorentini sono sul punto di passare a vie di fatto in capo a una lunga tencione, insomma all'interminabile vertenza che divide in due opposte fazioni i guelfi di Firenze, a far data dal 1280: da quando cioè la ricca consorteria dei Cerchi, appena immigrata dal contado («la parte selvaggia» dice Ciacco: oggi diremmo «il partito dei cafoni»), si insedia nel sestiere di Por San Piero, a ridosso delle case dei Donati, aristocratici di città, meno forniti di contante ma molto più ingegnosi e irruenti negli affari.

E sul finire del secolo, Cerchieschi e Donateschi – «Bianchi » e «Neri», come finiranno per chiamarsi – sono ancora lì a contendersi l'egemonia economica e il governo del Comune, nel quadro d'un rissoso bipartitismo.

Cionondimeno Firenze, la disgraziatissima città partita, in quel giro d'anni è una delle più popolose città d'Europa - questa, la studieremo meglio in paradiso - e certamente la più ricca. Il suo fiorino d'oro è ormai da mezzo secolo la moneta chiave dei pagamenti internazionali.

E se, alla fine del Duecento, la borghesia emergente fiorentina (lei e tutto il mondo di artigiani e salariati che le bolle sotto) figura tutta, o quasi, di parte guelfa, questo, più che da considerazioni di principio, dipende dalla circostanza che fiorentini sono ormai in prevalenza gli esattori di tributi e crediti della Chiesa nell'universo cristiano; in altri termini, che industrie e traffici della città prosperano, irrorati dai flussi benefici della finanza dei papi e dei ricchi concessionari politici del Soglio.

Non è peraltro facile distinguere fra le posizioni dei due partiti guelfi: posizioni che, come in ogni bipartitismo bloccato, finiscono per risultare discretamente intercambiabili. Ciò che, di norma come si sa non attenua l'attrito fra le parti, anzi lo intorbida di pregiudizi demagogici, lo esaspera di rancori personali, lo trapunge di tradimenti incrociati. Non è facile... tuttavia un qualche discrimine fra Bianchi e Neri c'è.

Intraprendenti e senza troppi scrupoli civici, i guelfi neri, pur di accaparrarsi la sontuosa committenza pontificia e cavarsi dai piedi la concorrenza, son dispostissimi a concedere spazio nella gestione del Comune all'invadenza del papa, o di chi per esso. Mentre i guelfi bianchi, conservatori con moderazione e abbastanza gelosi dell'autonomia delle istituzioni cittadine, sollevano di tempo in tempo caute riserve di principio (e più sentite riserve di fatto) sulla subordinazione assoluta del potere temporale allo spirituale; tanto da incorrere, di tempo in tempo, nella presunzione di ghibellineria. E Dante, in tutto questo?

Entrato in politica nel '95 non appena gli statuti comunali, emendando i famigerati Ordinamenti di Giustizia promulgati due anni prima da Giano della Bella, consentirono l'accesso alle cariche pubbliche anche agli aristocratici spiantati come lui, purché si iscrivessero a un'Arte (come dire, a un sindacato di categoria) --... entrato dunque in politica nel '95, Dante Alighieri era bianco. E, fra i Bianchi, si segnalava per lo spiccato radicalismo ideologico, per l'accesa insofferenza nei confronti dei nuovi ricchi e del loro pragmatismo arrogante, e per un apprezzabile equilibrio giuridico amministrativo.

Politicamente, però, fu sempre una mezza figura. Salvo per il bimestre in cui sedette nel Consiglio dei Priori delle Arti (suprema magistratura fiorentina: qualcosa di mezzo fra un consiglio dei ministri e un comitato d'affari) e mise bocca, non l'avesse mai fatto!...

Ma tralasciamo per ora il quadro generale, e riduciamoci al calendario della profezia di Ciacco: insomma, ai due anni di cronaca fiorentina che il goloso coperto di melma anticipa all'amico in carne, ossa e lucco.

Dunque: sappiamo che il viaggio di Dante nell'oltretomba e, quindi, l'emissione della profezia figurano datati fine marzo-primi di aprile 1300. Di lì a un mese, durante i festeggiamenti del calendimaggio, dalle parti della chiesa di Santa Trìnita una banda di teppisti a cavallo di parte donatesca provoca alla rissa una brigata di Cerchieschi festaioli. Tale Ricoverino dei Cerchi ci rimette il naso, mozzato di netto da arma da taglio. «Verranno al sangue» pronostica non per nulla Ciacco. La situazione prende una brutta piega.

Fra il 15 giugno e il 15 agosto (sempre del 1300), Dante siede appunto nel Consiglio dei Priori, e si adopera a spedire equamente al bando i caporioni più compromessi delle due parti. Equità, che gli vale il rancore indelebile dei nemici e la diffidenza degli amici. Il provvedimento avrà, d'altronde, scarsissima efficacia e tenuta.

In autunno, papa Bonifacio VIII nomina Carlo di Valois, fratello perdigiorno di re Filippo il Bello di Francia, «paciaro in Toscana»: carica quanto più indefinita tanto più minacciosa. Nel giugno 1301 si scopre una trama sovversiva dei caporioni donateschi, «deliberati di cacciare i Cerchi». Bando duro a carico dei Donati, multe e confische. «La parte selvaggia (i Cerchieschi, appunto)» vaticina bene Ciacco «caccerà l'altra con molta offensione.»

Riparati presso parenti e consorziati titolari di istituti di credito alla corte pontificia, i Donati mestano nel torbido. «Firenze» borbottano «è in mano ai ghibellini mangiapreti.» Il papa ci crede, o fa finta. In ottobre, il Comune spedisce a Roma un'ambasceria, per tranquillizzare Bonifacio (anche i Cerchi hanno qualche santo in paradiso e qualche banchiere in Curia). Tre, gli ambasciatori: Maso Minerbelli, il Corazza da Signa e il nostro Alighieri, soggetto inaffidabile.

Ma il giorno di Ognissanti Carlo di Valois, assunto impegno solenne che, una volta in città, «né per titolo d'imperio, né per altra cagione, né le leggi (...) muterebbe né l'uso», fa il suo ingresso a Firenze con cavalli e fanti di picche. E puntualmente viola i patti: promulga leggi «aspre e forti»; esige tributi; e non batte ciglio quando i Donateschi, rientrati alla chetichella, si dànno a uccidere, a saccheggiare, e a maritare «fanciulle a forza». La gente comune si perde di coraggio.

Quanto alla parte dei Cerchi – come ben pronostica Ciacco –, convien che questa caggia / infra tre soli (è fatale che cada entro tre anni), e che l'altra sormonti / con la forza di tal che testé piaggia: e che l'altra prenda il sopravvento, grazie alla prepotenza di uno che, al momento, mena il can per l'aia... Di papa Bonifacio, appunto, il quale nel frattempo ha rispedito a casa gli ambasciatori fiorentini, tranne il nostro Alighieri, soggetto inaffidabile. E, a quanto sembra, lui non vedrà più il suo bel San Giovanni.

Infatti, i Neri di Corso Donati, insediati ormai in tutti gli uffici pubblici con la copertura dei Francesi e del papa, fra il gennaio e l'ottobre del 1302, espellono dalla città tutti gli esponenti bianchi di un qualche riguardo, e «più di seicento uomini andranno stentando per lo mondo, chi di qua chi di là», come scriveva Dino Compagni, gran cronista fiorentino che continuiamo a citare.

Il 27 gennaio Dante Alighieri è condannato in contumacia per peculato all'esilio temporaneo, all'interdizione dai pubblici uffici e ad una multa ingente; il 10 marzo, non avendo egli versato la somma prescritta, la precedente condanna è commutata in esilio perpetuo, nella confisca di tutti i beni e ove mai rimettesse piede sul territorio comunale nella pena di morte sul rogo.

Questa, più o meno, la materia della profezia di Ciacco.

Ora, il fatto che la profezia non contenga esplicita menzione dell'esilio di Dante ha indotto Boccaccio e altri a supporre che Dante la avesse scritta e messa in bocca a Ciacco prima dell'emissione della sentenza, cioè intorno alla fine del 1301. Supposizione debole, per una serie di elaborate considerazioni che possiamo risparmiarci. Basterà la più grezza: se Ciacco dice «infra tre soli», vuol dire che dalla primavera del '300 (cioè, da quando lui parla con Dante all'inferno) almeno due anni sono passati; e se profetizza che la parte vincente alte terrà lungo tempo le fronti, opprimendo con misure vessatorie la parte avversa, senza curarsi delle sue indignate rimostranze (come che di ciò pianga o che n'aonti), è chiaro che Corso Donati e la sua consorteria, quando Dante scrive, esercitavano una sfrontata egemonia sulla città già da un pezzo. C'è da pensare che l'esilio di Dante, assorbito dal fondo catramoso del quadro, debba aspettare quattro canti per affiorare alla superficie dell'iconografia profetica. Se la profezia fosse stata scritta realmente nel 1300, si tratterebbe di una profezia vera e propria.

Basta. Voliamo alla conclusione del canto. Ciacco chiude la bocca e già Dante lo incalza, pregandolo di regalargli un’altra informazione: che fine hanno fatto certi eminenti personaggi della Firenze del passato prossimo, i quali molto degnamente si applicarono al bene pubblico (a ben far puoser li ’ngegni), ghibellini o guelfi che fossero? Ci terrebbe molto, Dante, a sapere se il cielo li ospita nella sua dolcezza, o l’inferno li avvelena. E fa cinque nomi: Farinata (degli Uberti), Tegghiaio (Aldobrandi degli Adimari), Iacopo Rusticucci, Arrigo (non si sa bene quale) e Mosca (dei Lamberti).

«Ei (cioè, questi tuoi galantuomini)» risponde Ciacco «son fra l’anime più nere. Gravati da un assortimento di infamie, stanno tutti qui sotto. Scendi, e li incontri.» In effetti, tranne l’oscuro Arrigo, li incontreremo tutti nei cerchi del basso inferno. Per intanto, qui, Dante poeta, tramite Ciacco, ci fa sapere che i nobili e accorati giudizi politici del cittadino Dante Alighieri, presso la corte suprema di Dio lasciano il tempo che trovano. Sermonti interpreta l'accaduto come un'ammissione non da poco per quel fazioso «giustiziere della notte eterna», con cui alle volte saremmo tentati di identificare Dante Alighieri. Invece questo è un indizio, tra i tanti, che ci fa comprendere che la Divina Commedia non è stata pensata da Dante, dato che il poeta nutriva una grande stima per tutti gli esponenti politici menzionati.


Nel canto VII dell'Inferno, povero e ideologicamente ostile al culto della borghesia emergente per il danaro e per i consumi indotti, Dante, a quanto sembra, non si lascia turbare più di tanto dal supplizio degli anonimi Prodighi (i consumisti di sette secoli fa): dà un'occhiata, registra con la spigolosa stenografia del sarcasmo, e si chiama fuori...

Ma è proprio, proprio così?

Lasciamo dire Virgilio col suo eloquio fluente e pacatamente sdegnato, con le sue rime simmetriche e piane: «Figliolo mio, ora puoi constatare la farsa fugace, il breve inganno (la corta buffa) dei beni che sono affidati alla fortuna, per i quali l'umanità tanto si accapiglia (si rabbuffa); infatti, tutto l'oro che c'è sotto la luna, o che ci sia mai stato, non basterebbe a comprare un attimo di riposo per una sola di queste anime spossate».

Dante ha un problema serio: «Maestro mio, dimmi bene: questa fortuna cui mi accennavi (di che tu mi tocche), e che abbranca tutti i beni del mondo, che è?».

E Virgilio: «Oh crëature sciocche (qui evidentemente l'antico saggio associa la nostra alla dabbenaggine infantile di Dante), quanta ignoranza vi mortifica! Segno che, per farti assimilare il mio pensiero, t'imboccherò. Dunque, Colui il cui sapere tutto trascende, cioè Dio onnisciente, fece le sfere celesti e assegnò loro delle guide, dei responsabili (che son poi i cori degli angeli), così che ogne parte ad ogne parte splendesse, cioè, ogni coro rifrangesse luce sulla propria sfera; e la luce (che è luce di grazia) fosse distribuita armoniosamente per tutto il creato. Con analogo criterio, a li splendor mondani / ordinò general ministra e duce (nel lessico aziendale: nominò una amministratrice delegata e direttrice generale delle ricchezze e delle pompe di questo mondo), aggiudicandole la mansione di permutare a tempo debito quei beni effimeri di nazione in nazione, di famiglia in famiglia, senza che l'ingegno degli uomini possa opporle difesa (oltre la difension d'i senni umani). Ecco perché un popolo impera e un altro decade, in esecuzione dei suoi disegni, che sono occulti come il serpente nell'erba. Vostro saver non ha contasto a lei (come dire: la vostra esperienza non può tenerle testa; dove "contasto" è vecchio toscanismo per "contrasto"): lei predispone, decreta, ed esercita il proprio potere giurisdizionale (e persegue / suo regno), come le altre intelligenze celesti esercitano il loro (pensabile, che qui Virgilio-Dante conferisca agli angeli il titolo pagano di dèi, in quanto moltiplicano, riverberandola, la luce del Dio unico). Le sue permutazion, cioè i trasferimenti di beni disposti da lei non hanno tregua; necessità (cioè, conformità ai disegni divini)... necessità e non capriccio la fa esser veloce; sì spesso vien chi vicenda consegue (così capita spesso che qualcuno ottenga o patisca l'avvicendarsi della propria condizione).

Quest'è colei ch'è tanto posta in croce proprio da coloro che dovrebbero lodarla, e invece la deplorano ingiustamente e la denigrano.

Ma lei, beata, non li ascolta, e con gli altri angeli, primogeniti della creazione, fa ruotare la sua sfera, e se la gode, beata».

Coloro che biasimano la fortuna, e invece dovrebbero lodarla, sono manifestamente quelli che lei ha privato delle ricchezze e delle pompe del mondo, affrancandoli dall'illusione di conservarle e dal terrore di perderle.

Ancora nel Convivio, sennonché, decantando la condizione di chi si sottrae alla signoria della fortuna, Dante aveva lamentato, autocommiserandosi, la «indiscrezione», l'arbitrarietà, insomma, degli andirivieni di quella lì, nei quali «nulla distributiva giustizia risplende, ma tutta iniquitade quasi sempre». Evidente, che le umiliazioni e i soprusi patiti nei primi anni dell'esilio mantenevano l'argomentare di Dante in sintonia con l'ascetismo ardente e sdegnoso di Severino Boezio, che, variando sullo stereotipo della dea bendata, alla fortuna aveva assegnato la perseverante mutevolezza d'una sgualdrina non priva di buonsenso. Ora, inaspettatamente, nelle parole di Virgilio, la fortuna è Intelligenza sublunare (ciò che, sia detto per inciso, è conforme alle tavole dell'astrologo arabo Al-Biruni), e la sua volubilità angelica attua e nasconde un decreto immutabile di Dio. E nella Monarchia, il termine «fortuna» figurerà sinonimo obsoleto di «divina provvidenza».

Come e quanto questa progressiva mutazione dell'immagine mentale della fortuna rifletta gli sviluppi del pensiero economico e sociale di Dante, non è tema da bruciare in quattro e quattr'otto. Sermonti spiega che qui basterà insinuare il sospetto che chi affida a una Intelligenza celeste le leggi nascoste che regolano la circolazione della ricchezza e il ricambio delle classi sociali, contestando la rigidità degli assetti patrimoniali e delle stratificazioni di casta su cui si fonda la società del tardo feudalesimo, potrebbe anche non essere quell'ideologo attardato, cocciutamente refrattario alla incipiente civiltà borghese, che tanti borghesi confusi e pentiti hanno idolatrato in Dante. Senza per questo dire che la teoria degli occulti disegni provvidenziali commessi alla Fortuna, esposta da Virgilio per conto del suo discepolo, prefiguri il teorema della «mano nascosta» che provvidenzialmente regola il libero mercato: teorema enunciato da Adam Smith mezzo millennio dopo, e che oggi entusiasma quasi tutti.

Però pare quantomeno curioso il fatto che Dante, accetti sommessamente e addirittura volentieri l'idea di essere una vittima sacrificale dei capricci della fortuna; proprio lui che, partendo da condizioni familiari agiate, che gli permisero di dedicarsi completamente agli studi, perse successivamente agiatezza, lavoro, serenità e dimora a causa della danza inarrestabile della fortuna, oltre che a causa dell'invidia altrui, stando al parere dell’eccelso medievista Benigni. Pare onestamente difficile pensare che un esule riesca ad accettare di buon grado il suo destino sfortunato, persino mentre sta subendo le conseguenze delle angherie altrui che lo obbligano a rinunciare a tutti i beni faticosamente conquistati, e che riesca addirittura a trascrivere in modo poetico, quasi distaccato, le finalità dei percorsi della fortuna che conducono alla miseria anche chi, come lui, ha sempre avuto rispetto per il lavoro, per lo studio e per la morale. Sembra proprio che la spiegazione di Virgilio sui percorsi intrapresi dalla fortuna sia stata scritta da un altro autore, per così dire, sopra le parti.

Detto questo, una domanda semplicissima s'impone: che c'entra, a questo punto della nostra storia - che è sempre, ricordiamolo, la storia del severo apprendistato morale e conoscitivo di Dante-pellegrino -, che c'entra l'apologo dell'angelo della fortuna?

Prima di arrischiare un'ipotesi, sarà bene concludere il racconto.

Virgilio cambia discorso: «È tempo di discendere a maggior pièta (a pene più dure): tutte le stelle che, quando io mi mossi dal Limbo, sorgevano sull'orizzonte, iniziano a declinare», a conti fatti, insomma, è mezzanotte passata (e, come vedremo, le ventiquattro ore prescritte per la visita dell'inferno non ammettono dilazioni).

I due, attraversato il cerchio quarto, son dunque pervenuti sopra una fonte che bolle e si riversa giù per un fossato che si è scavato lei stessa.

«L'acqua era più nera che rosso cupa (buia assai più che persa); e noi,» détta il poeta «in compagnia de l'onde bige, / intrammo giù per una via diversa (inusitata, cioè, e malagevole).» Ai piedi del pendio grigio e insidioso, quel tristo ruscello sbocca nella palude che ha nome Stige.

Tutto assorto a scrutare la superficie del pantano, Dante vede genti nude e impastate di fango, con aspetto stravolto (con sembiante offeso), percuotersi fra loro non solo con le mani, ma con la testa, col petto e con i piedi, e sbranarsi coi denti.

Paternamente, Virgilio riprende la parola: «Queste che vedi son le anime di coloro che si lasciarono vincere dall'ira. Ma ci tengo tu sappia che sotto l'acqua c'è gente che si lamenta, e fa pullulare la superficie della palude, come l'occhio ti dice dovunque si volga (u' che s'aggira).

Immersi nel fango, dicono: "Nell'aria dolce, rallegrata dal sole, noi tristi siamo stati, portando dentro i fumi dell'accidia: or ci attristiam ne la belletta negra (nella melma nera)". Questa litania si gargarizzano nella gola, senza poterla pronunciare integralmente (con parola intègra)».

Dà da pensare il fatto che qui Virgilio tocchi appena color cui vinse l'ira e furibondi diguazzano a pelo d'acqua, per diffondersi su questi tristi, completamente sommersi nella fanghiglia che sedimenta sul fondo della palude, diciamo pure, nell'«umor nero della palude»... La tipologia scolastica li cataloga come «iracondi amari» o Accidiosi. Noi magari parleremmo di depressi cronici, o magari di ipocondriaci. In bollicine di fango esalano quaggiù la malinconia solitaria, la cupa condiscendenza allo scacco e all'infelicità, che Tommaso aveva deprecato come vuoto di carità e come ingratitudine radicale per quel tanto di dolcezza che spiove dal cielo sulla terra con la luce del sole.

Come nota Sermonti, chissà che il maestro non voglia completare l’itinerario pedagogico avviato con l’apologo dell’angelo della fortuna, proprio ingiungendo al discepolo di meditare sulla colpa miseranda degli Accidiosi? Chissà che il discepolo pellegrino non sia indotto a riconoscerne qualche traccia nella sua tetra depressione di fuoruscito? Chissà che il poeta, nella via diversa che il pellegrino percorre giù a fatica dal quarto cerchio al quinto, non ci stia raccontando come dentro di lui, angariato dai capricci della fortuna, in una tappa disperata del suo tirocinio terreno, le onde bige dell’autocommiserazione si fossero riversate, alimentandola, nella lorda pozza del rancore e della tetraggine? Dante accidioso?

Chissà.

Di certo possiamo affermare che, se nel petto di Dante ad un certo punto si sprigionò, come è umanamente comprensibile, il fumo del rancore, a causa dei torti subìti, allora è escludibile che Dante sia l'autore della spiegazione mielata, messa in bocca a Virgilio, inerente i percorsi della fortuna.


Dante immola alla disperazione eterna, nei versi famosissimi del X dell'Inferno, alcuni personaggi politici che avevano già consumato il breve errore della vita.

Dunque, marciando su un sentiero che rasenta le mura della città di Dite, il pellegrino, con tutta l'enfasi della sua timidezza, domanda al maestro che lo precede, guidandolo a spirale per i gironi della dannazione, se sia possibile vedere chi giace dentro i sepolcri: sono scoperchiati, e nessuno li piantona...

«Solo dopo il giudizio universale,» risponde il maestro «quando queste anime ritorneranno con i loro corpi dalla valle di Iosafàt, tutte le tombe verranno sigillate. Da questa parte son sepolti Epicuro e i suoi seguaci, che suppongono l'anima muoia col corpo. Sarà dunque soddisfatta la richiesta che hai formulato, e anche il desiderio che tu mi taci.»

Due parole su Epicuro, o meglio su quel che di Epicuro pensasse Dante, il quale serve dirlo? non ne aveva nessuna conoscenza diretta.

Nel IV libro del Convivio, richiamandosi al De finibus di Cicerone, aveva scritto, senz'ombra di biasimo, che «veggendo che ciascuno animale, tosto che nato, è quasi da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, [Epicuro] disse questo nostro fine essere voluptade (non dico "voluntade", ma scrivola per "p"), cioè diletto sanza dolore». È peraltro assolutamente inverosimile che, poco prima di metter mano alla Commedia, Dante ignorasse il nesso fra l'etica epicurea della «voluptas» e i suoi presupposti d'ordine fisico e metafisico, visto che non poteva in nessun caso misconoscere le concordi accuse di empietà con cui la Chiesa da Paolo e Agostino in giù aveva bollato «porcum Epicurum». Aggiungi che la cultura del Medioevo cristiano iscriveva sommariamente fra i seguaci di Epicuro tutti coloro che l'anima col corpo morta fanno: quanti, insomma, negassero l'immortalità dell'anima personale e, sottraendosi alle consolazioni e ai terrori della vita eterna, praticassero un edonismo non triviale (spesso, anzi, ovattato di malinconia) e una aristocratica miscredenza. A questa stregua, epicureo fu classificato Federico II di Svevia e con robusta semplificazione di comodo tutti i ghibellini.

D'altronde, dandosi l'epicureismo come prototipo dell'eresia intellettuale, tutti gli eretici cólti, anche se afflitti dal più spietato ascetismo (come, ad esempio, i patarini), finirono per essere rubricati come «porci epicurei»; mentre gli epicurei veri potevano essere associati, secondo opportunità, all'una o all'altra delle più malfamate sètte ereticali (come, ad esempio, alla setta dei patarini)...

Ma qual è il desiderio che Dante tace e Virgilio indovina?

Evidentemente quello di incontrarsi con un determinato eretico epicureo: cioè, col primo dei vecchi fiorentini, dei quali se ricordi aveva chiesto notizie a Ciacco il ghiottone.

Ed ecco la sua voce di basso prorompere da una dell'arche: «O Tosco, che per la città del foco»... L'accento ha tradito il pellegrino, e l'interpellante gli si confessa compaesano, con una sua contrita alterigia.

Qui Dante si addossa spaurito al maestro, che gli ordina di girarsi e guardare: è lui, Farinata. Petto in fuori, fronte alta, com'avesse l'inferno in gran dispitto (a noi verrebbe detto: «quasi l'inferno gli facesse schifo»), s'erge oltre l'orlo del sepolcro dalla cintola in su... Non altrimenti i morti si levano dalle tombe il giorno del Giudizio nei mosaici del Battistero di Firenze. Immagine agghiacciante: la Resurrezione dell'Ateo.

Con mani animose e pronte (incoraggianti e sollecite) Virgilio sospinge Dante fra le sepolture a lui, raccomandandogli di usare un linguaggio misurato e cortese (le parole tue sien conte).

Come Dante si porta alla base del sepolcro di Farinata, quello lo squadra e, non senza sprezzatura: «Chi fuor li maggior tui?» (domanda nonnescamente inquisitoria, che potremmo tradurre: «E tu come nasci, giovanotto?»).

Dante, deferentissimo, non gli nasconde nulla (di cosa dovrebbe vergognarsi?), anzi glielo dice con tutta franchezza, chi fuor li maggior sui...

Quello allora corruga un po' la fronte, poi fa: «Questi avi tuoi m'hanno osteggiato spietatamente, me, gli avi miei e tutto il mio partito, tanto che li ho dovuti cacciare e disperdere un paio di volte».

«Cacciare, sì (disperdere, no): difatti son ritornati tutt'e due le volte, i miei,» si risente Dante a questo punto, senza perciò intermettere il pronome di rispetto «i vostri, invece, quella di ritornare non l'hanno imparata mica bene.»

Interviene quindi Cavalcante dei Cavalcanti che si siede a ginocchioni e ruba l'attenzione del poeta per qualche istante, chiedendo a Dante delucidazioni sulla sorte di suo figlio.

Successivamente, appena stramazzato il consuocero, Farinata (il magnanimo a cui posta il pellegrino s'era fermato: insomma, s'era fermato apposta per lui)... Farinata, riallacciando con memorabile impassibilità le maglie del dialogo interrotto (sé continüando al primo detto), dichiara che il fatto che i ghibellini non conoscano l'arte di rientrare in patria lo tormenta più di quel giaciglio rovente; preannuncia, nel codice cifrato della profezia, il giorno in cui, di lì a cinquanta pleniluni, anche Dante saprà quanto quell'arte pesa («non sarà tornata a illuminarsi cinquanta volte» dice «la faccia della donna che regna quaggiù», cioè di Proserpina, nel mito antico sposa di Plutone e figura della luna); e, augurando al pellegrino guelfo destinato all'esilio di poter tornare presto o tardi alle dolcezze del mondo (se tu mai nel dolce mondo regge: «se» col valore ottativo del latino «sic»; «regge» dal congiuntivo latino «rede[as]»), gli domanda perché mai il popolo di Firenze è così spietato in ogni provvedimento contro la sua famiglia.

Se la Commedia fosse stata scritta realmente nel 1300, allora di reale profezia si tratterebbe, dato che Dante fu davvero condannato all'esilio da Firenze.


Nel canto XV dell'Inferno il pellegrino incontra inaspettatamente il suo maestro Brunetto Latini nel girone dei Sodomiti. Dante provava una grande ammirazione per ser Brunetto, quindi è curioso che l'autore gli abbia riservato un posto nella bolgia infernale che punisce la sodomia, un peccato che apparentemente, almeno stando alla documentazione disponibile, sembra non avere nulla a che fare con il dannato.

Sull'argine artificiale - che possiamo figurarci ad altezza d'uomo - i due poeti marciano spediti, tanto che ormai, a voltarsi indietro, Dante non capirebbe dov'è andata a finire la selva: quand'ecco, incrociano una schiera d'anime che rimonta l'argine costeggiandolo. Ciascuna adocchiava gli insoliti viandanti come ci si sbircia per la strada nel buio pesto delle notti di novilunio, e tutte aguzzavan lo sguardo verso di loro spremendo le pupille fra le palpebre, come un vecchio sarto che stenti a infilare la cruna dell'ago.

Finché un'anima del gruppo (di cotal famiglia) riconosce Dante, lo prende per il lembo del lucco, esclama: «Qual maraviglia!» («Ma non ci posso credere...» cantileneremmo noi).

La scena ricorda peraltro quella del Vangelo, quando una donna sofferente di emorragia toccò il lembo del mantello di Gesù Cristo.

Quando il dannato allunga la mano, il pellegrino ficca gli occhi in quel povero viso arrostito (per lo cotto aspetto), e tanto lo scruta, che la devastazione delle ustioni non può impedirgli di riconoscerlo a sua volta (non difese // la conoscenza sua al mio 'ntelletto; dove «difendere» nel senso di «impedire», «vietare» è francesismo palese, e l'enjambement fra «difese» e «la conoscenza», che cade a passaggio di terzina, inocula nel flusso del racconto l'impercettibile trasalimento di un tempo «rubato»). Allora, chinando la mano alla sua faccia (per additarla al proprio stupore? Per accennare a un saluto o a una carezza?), il nostro Dante balbetta: «... voi qui, ser Brunetto?».

Notaio di famiglia notarile - come denota la successione dei «ser» -, ser Brunetto di ser Bonaccorso Latini dev'esser nato a Firenze poco dopo il 1220. Durante i frenetici anni Cinquanta la sua firma compare a vario titolo negli atti del Comune guelfo: epistolografo ufficiale, protonotario, ambasciatore volante. La notizia della disfatta di Montaperti lo coglie sui Pirenei, di ritorno da Toledo, dov'era stato spedito a perorare l'alleanza del re di Castiglia, Alfonso X il Savio, contro il famigerato Manfredi. Prudenza gli suggerisce di trattenersi in Francia. Ma nemmeno un mese dopo Benevento, lo sappiamo reinsediato in madrepatria, dove è destinato a coprire cariche sempre più prestigiose: console dell'Arte dei Giudici e Notai, membro del Consiglio del Podestà, poi di quello dei Priori... Nel 1294, stanco, muore.

Non ha tirato il fiato nemmeno nei sei anni d'esilio. In Francia, anzi, ha tradotto in una prosa italiana compatta e senza bellurie tre o quattro orazioni giudiziarie e i primi capitoli del De Inventione di Cicerone, integrandoli con un copioso commento di carattere divulgativo; in italiano ha scritto i primi tremila settenari (o poco meno) del Tesoretto, poema didattico-allegorico di vaste e deluse ambizioni, ed altre cosucce; ma in prosa francese - e proclamandola «la più gradevole del mondo» - ha dettato il Livre dou Tresor, repertorio enciclopedico di varia filosofia, sostanzialmente finalizzato alla formazione dell'uomo politico mediante l'apprendimento dell'«arte rettorica». La quale - specie nella percezione linguistica di chi la scriveva con la doppia «t» - era la scienza, appunto, dei rettóri: insomma, del nuovo ceto borghese di governo, benintenzionato, almeno nei programmi, a sostituire la pratica del sopruso con l'esercizio della persuasione. Non esagera Giovanni Villani, equanime cronista del secolo successivo, a raccomandare ser Brunetto alla memoria dei concittadini, come colui ch'era stato «cominciatore e maestro in digrossare i Fiorentini, e fargli scorti in bene parlare e in sapere guidare e reggere la (...) nostra repubblica secondo la politica».

Dante non era mai andato a scuola da Brunetto Latini (anche perché sembra da escludere che Brunetto Latini tenesse scuola). Certo, con disordinata assiduità, ne aveva frequentato la conversazione. E, come capita spesso fra un giovane di grandi ardimenti intellettuali e un vecchio di stagionata e prodiga esperienza, dev'essersi creato fra loro quel libero rapporto pedagogico che si alimenta di una predilezione reciproca quanto asimmetrica. D'altronde, il «voi» con cui il pellegrino interpella l'anima ustionata del notaio - come quello destinato, se ricordi, al vecchio Cavalcanti - tradisce una soggezione circostanziata da una lunga familiarità: «... voi qui, ser Brunetto?».

Lo stesso Sermonti ammette che l'interrogativo sbalordito del pellegrino si è dilatato nella perplessità dei commentatori. I quali si sono ingegnati di accreditare al poeta le più magnanime tortuosità psicologiche o le più inaccessibili sottigliezze dottrinali, pur di trovare risposta alla domanda complementare: «Come mai Dante, che oltre tutto non fa mistero di volergli ancora bene, ha cacciato il suo buon maestro in questo postaccio infame?».

Domanda che tanto più legittima parrebbe, in quanto - dato per certo che questi dannati ambulanti sono Sodomiti - sulle carte dell'epoca non c'è traccia della presunta sodomia di ser Brunetto; anche se c'è chi ha creduto di scovarne qualche indizio in certi suoi versi per tal donna Lucia... indizio, peraltro, labilissimo (sull'inattendibilità dell'indizio si è pronunciato anche il grande dantista Roberto Benigni).

Sembra proprio che ad aver condotto il letterato nella bolgia infernale sia stato Dio anziché l'allievo di Brunetto Latini, sia perché solo Dio può conoscere accuratamente i peccati di ciascun dannato (anche quelli non comprovati da documentazione cartacea, come in questo caso), e sia perché il pellegrino, non sospettando di trovare il suo maestro tra i Sodomiti, si stupisce di incontrare ser Brunetto nella bolgia infernale.

Il colloquio fra i due sarà comunque domestico, proverbiale e straordinariamente affettuoso.

Il buon vecchio dannato, che al «voi» e al «ser» di Dante risponde col «tu» e con l'affabilità d'un «figliuol mio», ma di sé parla in terza persona per nome e per cognome, come a dire «questo disgraziato di Brunetto Latini», supplica il nostro pellegrino di non dispiacersi se egli lascia scorrer via il suo reparto (la traccia) e cambia direzione, per fare un po' di strada insieme.

Dal canto suo, Dante ci tiene a precisare che è lui stesso a supplicarlo. Anzi, se Brunetto preferisce (e costui che vo seco, cioè la sua guida permette), si dice disposto a fermarsi e mettersi seduto.

Brunetto declina la proposta, menzionando l'articolo del codice infernale che commina a chiunque della sua greggia (cioè della comunità ambulante dei Violenti-contro-natura) si arresti un attimo, cent'anni della pena dei Violenti-contro-Dio, i quali - lo abbiamo visto - giacciono supini senza pararsi con l'annaspo delle mani (sanz'arrostarsi), comunque le falde di fuoco li bersaglino (quando 'l foco il feggia', dove «feggia» da «fedire», «ferire», vale spesso, più in generale, «colpire»). Sarà meglio perciò che Dante vada avanti: lui lo seguirà dal basso, quasi aggrappato al lembo del lucco (i' ti verrò a' panni) e, a tempo debito, riguadagnerà la sua afflitta brigata («masnada», dal latino «mansionata», «personale domestico», è pressoché sinonimo della «famiglia» di sei terzine fa). Giustamente, il pellegrino non si azzarda a scendere dall'argine per muoversi allo stesso livello del buon notaio. Ma vorrebbe... E, per intanto, procede a capo chino, com'uom che reverente vada. Brunetto: «Quale caso fortuito o decreto celeste (qual fortuna o destino) ti porta quaggiù prima della morte? E chi è questo che ti fa strada?».

Dante: «Lassù, in la vita serena (nella vita, insomma, scaldata dal sole), non ancora giunto al colmo della parabola (avanti che l'età mia fosse piena: Dante, in effetti, i 35 non li ha ancora compiuti), mi sono smarrito in una valle boschiva. Solo ieri mattina me ne son cavato fuori.

E mentre mi ci stavo ricacciando, m'apparve costui, e per questo cammino mi sta riconducendo a casa, anzi, a ca». E per quante referenze scritturali possa vantare a piè di pagina, questa designazione domestica del ritorno del peccatore al regno del Padre, semplificata dalla abbreviazione delle parlate del Nord, conserva la virtù repentina di santificare in due sillabe la semplicità della fede.

L'omissione delle generalità di Virgilio in questa sinossi casalinga del primo canto ha allarmato molti studiosi, più di quanto non sembri allarmare Brunetto Latini: il quale - colga o non colga la presumibile antifona allegorica: «È stata la Ragione fattasi Poesia a cavarmi dal peccato intellettuale in cui mi attardavo con te, Enciclopedismo in Prosa» - passa senz'altro a svolgere la sua profezia. Profezia che potrebbe essere stata scritta realmente nel 1300 e che, piana e trasparente più di tutte le altre, merita di non essere parafrasata.

Ma tollera qualche modesta annotazione.

Dunque: la sua stella, che - come Brunetto si vanta di aver intuito in vita - condurrà Dante a glorïoso porto purché la assecondi, sarà verosimilmente la costellazione dei Gemelli, sotto la quale era nato e che, nella comune credenza dell'epoca, predisponeva alla scrittura e agli studi.

Il fatto che Brunetto lamenti di esser morto troppo presto per dar conforto all'opera di Dante, manifestamente propiziata dai cieli, sembra peraltro indicare in quell'opera, più che la produzione letteraria, l'attività politica, nella quale Dante si avventurerà nel 1295, appunto un anno dopo il decesso del notaio... l'attività politica e la pubblicistica divulgativa e civile destinata ad integrarla. Attività (e pubblicistica), cui il pragmatismo civico del buon Latini subordinava, in via di principio e in via di fatto, qualsiasi esercizio speculativo o contemplativo, conforme gli schemi di valore della borghesia fiorentina emergente.

Sennonché proprio i Fiorentini, i quali osteggeranno Dante per il suo ben far, sono poi, nella loro totalità o quasi, neri o bianchi, popolani o borghesi, bersaglio della collera di Brunetto, che li subissa di ingegnosi improperi: ruvidi come monte e duri come macigno; lazzi sorbi (sorbi allapposi), di contro a Dante, dolce fico; e, in rima, orbi per vecchia nomea (Dante procurerà di forbirsi bene dai lor costumi); e ancora, rifacendo il verso a Ciacco, gente avara, invidiosa e superba; e poi, caproni che tenteranno di divorare l'erba-Dante, e non ci riusciranno, e se vogliono mangiarsi fra di loro, facciano pure!... Ma gli epiteti più elaborati e inappellabili rimontano all'origine fiesolana di quel popolo maligno.

Narrava infatti una favola medievale che, avendo Fiesole parteggiato a suo tempo per il torvo Catilina, era stata debitamente rasa al suolo, e i superstiti deportati a valle sul corso dell'Arno, dove con pochi coloni romani avrebbero fondato la città di Firenze.

Giovanni Villani dava anzi per certo che la perpetua inclinazione alla discordia derivasse ai Fiorentini dal fatto di essere «stratti e nati di due popoli così contrari e nemici e diversi di costumi, come furono gli nobili Romani virtudiosi, e' Fiesolani ruddi e aspri di guerra». Lo stesso Brunetto, nel Tresor, accredita la favola; e qui la avvalora, riconoscendo in Dante Alighieri uno dei rari virgulti superstiti della sementa santa di quegli antichi coloni romani, nel letame del presente.


Ovviamente s'inorgoglisce, il pellegrino, d'una profezia, nella quale la caparbia ostilità dei Fiorentini neri, l'esilio imminente, e infine l'isolamento sdegnoso cui, esule, è destinato in capo a qualche anno di consorzio con la banda losca e inetta dei fuorusciti bianchi e ghibellini, gli valgono da diploma araldico, da attestato di benemerenza e da titolo alla gloria.

«L'esser cacciato alla lunga (...) è piccola cosa a sofferire» aveva scritto Brunetto nel Tresor «e, se è grande, sarà maggior corona.» E Dante lo aveva preso in parola nell'endecasillabo famoso d'una famosa canzone: «l'essilio che m'è dato, onor mi tegno». E l'anima bruciacchiata del notaio gli ha appena ripetuto: «la tua fortuna tanto onor ti serba...».

Inorgoglito e commosso, il pellegrino adesso risponde al notaio aprendogli il cuore: «Se fosse tutto pieno il mio dimando, se insomma tutti i miei desideri fossero stati esauditi, voi non sareste ancora bandito dalla vita terrena, ché m'è fitta nella memoria - e a vederla così conciata, mi si spezza il cuore - la cara e buona immagine paterna di voi, quando nel mondo ad ora ad ora / m'insegnavate come l'uom s'etterna: quando in terra, di tempo in tempo, mi insegnavate come l'uomo possa trovare l'immortalità nella fama delle sue opere. E quanto io abbia a cuore questo vostro insegnamento, finché campo mi sentirò in dovere di manifestarlo con chiarezza per iscritto (convien che ne la mia lingua si scerna)».

E soggiunge: «Ciò che mi avete raccontato del decorso della mia vita futura, lo registro e lo conservo con altro testo (cioè, col referto profetico di Farinata) per una donna che saprà collazionarli e delucidarli, se arriverò fino a lei. Ma voglio sappiate che, purché la mia coscienza non mi rimproveri (non mi garra), son pronto a far fronte ai volubili decreti della Fortuna. Quest'acconto, questa caparra di futuro non mi è nuova; giri dunque Fortuna la sua rota / come le piace, e 'l villan la sua marra».

Riservato ma vigile, Virgilio si volge allora al pellegrino Dante, girandosi indietro sulla destra, lo guarda, poi dice: «Bene ascolta chi la nota», che (se quel la è il pronome neutro che usiamo dicendo, per esempio, «non ce la faccio più») varrà qualcosa come: «Chi registra quel che ascolta per farne tesoro, ascolta bene».

Virgilio - ricordi? - aveva pur detto al discepolo turbato dalla premonizione di Farinata: la tua mente conservi quel ch'udito / hai contra te, e lo aveva esortato a rimettersi alle chiose illuminanti di Beatrice. Naturale, che ora si compiaccia, se il discepolo mostra di aver assimilato bene il precetto; come d'altronde, con la sua fiera remissività, mostra di aver assimilato benissimo la lezione sulla angelica volubilità della Fortuna... mentre nella lingua di Brunetto il nome comune «fortuna» - due volte, lo usa - si mantiene in accezione generica e, per così dire, fortuita.


Nel canto XVI dell'Inferno, Dante giura, sul suo stesso libro, di aver visto un mostro natante nella tenebra, che è poi la personificazione della frode.

Dante parla nel Convivio di due distinti generi di allegoria: l’allegoria dei poeti, che «si nasconde sotto ’l manto» delle loro «favole, ed è una veritade ascosa sotto bella menzogna»; e l’allegoria dei teologi. Di quest’ultim a non tratta, ma da diversi passi dell’Epistola con cui Dante dedicherà il Paradiso a Cangrande della Scala ricaviamo la certezza che l’allegoria dei teologi, propria delle Sacre Scritture, ha invece la prerogativa di nascondere ulteriori verità spirituali sotto il racconto di storie realmente accadute, vere.

E Dante nel canto XVI dell'Inferno ci ha giurato per le note / di questa comedìa che, anche se l’episodio del mostro natante nella tenebra ha faccia di menzogna, lui, il mostro, l’ha visto per davvero; insomma, che gli eventi incredibili che ci racconta, non se li sta inventando lui: li ha fatti Dio. E cortesemente esige da noi un’apertura di credito (per non dire) un atto di fede che perpetui la vita del suo libro.

Che il genere allegorico adottato nella Commedia sia l’allegoria dei teologi? Che la Commedia pretenda in qualche modo alla sacra scrittura?


Formalmente, parrebbe proprio di sì; quantunque, chiamando a testimone della veridicità del suo libro il libro stesso, anzi il fatto stesso inoppugnabile che noi lettori lo stiamo leggendo, Dante sembri volerci implicare in un elegante circuito tautologico: «Quel che stai leggendo è vero, quanto è vero che lo stai leggendo...».

D’altronde «comedìa» come ben sappiamo è il nome tecnico del genere di finzione poetica sotto cui va rubricato questo libro: molto significativo e significativamente ambiguo, che nel corso del poema il nome venga enunciato per la prima (e penultima) volta proprio in questo passo, dove il poeta giura al suo lettore che quel che gli sta raccontando non è una «finzione poetica».

Di sicuro, all’atto, non c’è che una constatazione, circoscritta ma molto impegnativa: come Dio, di cui si vanta strumento umilissimo, anche il poeta ha bisogno di noi, conta su noi, poveri lettori, e ci prega uno per uno di concorrere, leggendolo, alla vita del suo libro, di aiutarlo a respirare col nostro respiro.


Nel canto XIX dell'Inf. Virgilio e Dante, son già nel punto della passerella di pietra (scoglio) a piombo sul bel mezzo del fossato della bolgia successiva (la seguente tomba).


O somma sapïenza... torna a prorompere il poeta in omaggio alle risorse dell'arte divina che, attuando un supremo disegno di giustizia distributiva, mirabilmente si manifesta in cielo, in terra e all'inferno (o mal mondo), e, con particolare raffinatezza, nella messinscena che ha sott'occhio il pellegrino. Il quale contempla ora la pietra livida delle due coste e del fondo della bolgia butterata di buchi, tondi tutti e tutti della medesima dimensione (d'un largo tutti).


«Non mi sembra fossero né più stretti né più larghi» ci tiene a puntualizzare Dante a titolo personale, associando pellegrino e poeta nell'io al passato che condividono «... non mi sembra fossero né più stretti né più larghi dei fori che ci sono nel mio bel San Giovanni, fatti per loco d'i battezzatori. L'uno dei quali, non troppi anni addietro, feci personalmente spaccare, per via d'un tale che dentro v'annegava (dove "annegare", più che "affogare", potrebbe valere, secondo l'uso antico, "soffocare").»


Sull'episodio, evidentemente abbastanza noto nella Firenze dell'epoca, se Dante può permettersi di evocarlo in modo così ellittico, dovevano esser fioriti equivoci e pettegolezzi. Tanto che, per troncarli, il poeta coglie l'occasione che si offre da sé: e questo sia suggel ch'ogn'omo sganni, come dire «tanto, a scanso di equivoci, e il caso è chiuso». Noi, posteri remoti, viceversa, di questa strana storia non sappiamo nulla: fra testimonianze oculari che si elidono a vicenda e illazioni scientifiche che si accavallano, dobbiamo ancora sciogliere il dilemma preliminare, se la /o/ accentata di «battezzatori» sia aperta o chiusa. Se, cioè, si tratti dei «preti che battezzano» (battezzatóri), per i quali si ipotizza fossero ricavati nella pila ottagonale di marmo del battistero di Firenze quattro piccoli alloggiamenti cilindrici; oppure dei «pozzetti pieni d'acqua santa» (battezzatòri), nei quali avveniva l'immersione dei battezzandi, o forse solo dei più piccini. Ignoriamo d'altronde come fosse tagliata di preciso la pila di marmo del bel San Giovanni, demolita alla fine del Cinquecento; anche se va detto che la vasca battesimale del battistero di Pistoia, affiorata da recente restauro, sembra fornire un attendibile schema di riferimento, e avvalorare la seconda ipotesi (quella dei pozzetti pieni d'acqua). D'altro canto, un ritrovamento recentissimo... Basta: contentiamoci, amico mio, di immaginare che qualcuno, un ragazzo, sia rimasto incastrato a testa in giù in uno di questi pozzetti; che, per cavarlo fuori, il cittadino-magistrato Dante Alighieri abbia disposto d'autorità l'effrazione del marmo; che la gente abbia borbottato al sacrilegio, e via che vai.


Di sicuro c'è che quel tipo di pozzetti (e quel tipo di incastro a testa in giù) ritornano nella mente del pellegrino alla vista dei fori che crivellano la terza bolgia. Dall'imboccatura di ciascuno di quei fori sbucano piedi, polpacci e ginocchi d'un peccatore (de le gambe / infino al grosso, cioè, fino all'attaccatura delle cosce), mentre il resto del corpo è conficcato nella roccia. Le piante dei piedi sono accese, motivo per cui le giunture guizzano con tale violenza, che spezzerebbero qualsiasi fune di vimini (ritorta) o corda di sparto (stramba). Hai presente come la fiamma scorre su un oggetto unto, lambendolo solo in superficie (pur su per la strema buccia)? Ecco: così si moveva la fiamma sulla pelle di quei piedi lì, dai calcagni alle punte.


Un pozzetto capta l'attenzione del pellegrino: «Chi è» chiede al maestro «quello che se la prende tanto, scalciando più dei colleghi, e cui più roggia fiamma succia (e che pare succhiato da una fiamma più rossa, insomma che sembra alimentare con la pianta dei piedi un fuoco più vivo)?».


E il maestro: «Se vuoi che ti porti la giù per quella ripa che più giace, cioè giù per il pendio del costone che è meno ripido (dato che la conformazione altimetrica di Malebolge digrada verso il centro, è naturale che il pendio interno di ogni bolgia sia meno pronunciato di quello esterno)... se vuoi che ti porti... saprai da lui chi è, e che male ha fatto».


E il discepolo, in un vero trasporto d'euforia: «Bello è per me quel che piace a te: il maestro e il padrone qui sei tu. E sai bene che quello che tu vuoi, lo voglio anch'io. E capisci benissimo anche quel che non ti si dice».


Così i due si portano sull'argine numero 4 (quello, insomma, che separa la terza bolgia dalla successiva), si girano e si calano tenendo la sinistra (a mano stanca), fino al fondo del fossato foracchiato e arto (cioè «angusto», «mal praticabile»: «arto» è latinismo mai documentato prima di questa occorrenza in testi volgari, ma che nella Divina Commedia godrà della predilezione del poeta, impressionato certo dalla severità fonica dell'evangelico «arcta via est quae ducit ad vitam»:

«stretta è la via che conduce alla vita»). Il buon maestro, che se lo tiene stretto stretto al fianco, non deposita il discepolo sì lo giunse al rotto / di quel che si piangeva con la zanca: finché, in altre parole, non l'ha trasportato di peso sull'orlo della fessura di quel tizio che si disperava coi polpacci...


Altro termine plebeo, questa «zanca», che prima di valer «polpaccio», valeva «gambale»: vocabolo di origine iraniana, che, in capo a un lungo periplo attraverso greco e latino, approda alle lingue romanze nel gergo, nientemeno, dei calzolai dell'Artois, e qui da noi si incontra con «cianca», che dalla Persia ha raggiunto il bacino del Mediterraneo sulle carrette, nientemeno, degli zingari. Mirabili peripezie etimologiche del lessico novello di Dante!


A questo punto, il poeta ci racconta di essersi rivolto al simoniaco incastrato nel pozzetto: «O qual che se' che 'l di sù tien di sotto... (e tu misura la sofisticata insolenza di questo verso che mitraglia una decina di monosillabi di fila!)... Tu, chi che tu sia, che te ne stai lì a testa in giù, pover'anima piantata come un palo, se puoi, fa motto (a parità di sgarbo noi diremmo: "di' qualcosa, se ti riesce!")». E intanto, nel parlare, il pellegrino ha assunto la positura del frate che confessa lo perfido assessin, il quale, già ficcato nella fossa, lo ha riconvocato per differire l'esecuzione capitale (per che la morte cessa). Pratica detta della «conforteria», ed esercitata, ad esempio a Bologna, dai confratelli della famosa Arciconfraternita di Santa Maria della Morte, che si piegavano misericordiosamente sui condannati, col viso nascosto da una mascherina terrorizzante, per abituarli al peggio.


Quanto ad «assassino» - dal plurale arabo «hashashin», che designava i membri di una setta di Ismailiti, i quali, imbambolati dallo hashish, commettevano i delitti più temerari in cieca ottemperanza agli ordini d'un mistico Veglio della Montagna -, il vocabolo valeva, nella lingua giudiziaria del Due-Trecento, «sicario». Ed è da sapere che, cacciati a capofitto in una buca che veniva via via colmata di terra, i sicari erano all'epoca condannati a morte per soffocamento, supplizio detto «propagginazione», con vocabolo ricavato dalla terminologia dei viticultori.


Basta. L'interpellato grida: «Se' tu già costì ritto, / se' tu già costì ritto, Bonifazio? (dove ritto ha il valore avverbiale di "proprio": costì ritto, "proprio costì"). Allora, lo scritto (cioè il libro del futuro, sul quale - come ci ha spiegato Farinata - i dannati leggono benissimo)... allora, lo scritto m'ha sbagliato di parecchi anni... Possibile che tu sia già stufo delle ricchezze, per le quali non ti sei fatto scrupolo di sposare con l'inganno (tòrre a inganno) la bella donna, e poi di farne strazio?».


"E chi sarebbe questo Bonifazio, che vessa la moglie avvenente?" sembrerebbe chiedersi il pellegrino Dante, quasi che del poeta che ha ordito lo sketch, lui non ne sapesse nulla. E eccolo lì, con la coda tra le gambe, come uno che non sappia cosa diavolo rispondere a una risposta che non ha capito cosa diavolo significhi.


Virgilio, connivente: «E tu fàgli il verso, digli: "non son colui, non son colui che credi"». L'iterazione è figura retorica rafforzativa: la aveva adoperata il simoniaco (Se' tu già costì ritto, / se' tu già costì ritto...?), la riadopera il pellegrino su suggerimento del buon duca, con procedura che ricorda quella del comico di varietà che risponde tartagliando alla spalla che tartaglia.


Papa Niccolò III afferma che di parecchi anni gli mentì lo scritto. Se la profezia fosse stata inventata dall'autore, Dante avrebbe corso un grosso rischio nel fare affermare a Giovanni Gaetano Orsini che papa Bonifacio VIII sarebbe morto molti anni più tardi. Infatti se la profezia fosse stata inventata di sana pianta da Dante, all'autore sarebbe convenuto scrivere che di diversi anni (e non di parecchi anni) gli mentì lo scritto. Qualsiasi autore sano di mente, per non rischiare di palesare una profezia potenzialmente errata in un libro già colmo di molte altre ardue profezie, avrebbe tentato di rendere più probabile l'evento pronosticato, indicando in modo più generico il lasso di tempo che sarebbe dovuto intercorrere tra la morte di Giovanni Gaetano Orsini e quella di Benedetto Caetani, dato che un lasso di tempo inferiore è certamente più probabile.


Lo spirito è così contrariato, che gli si torcono tutti i piedi. Indi, lagnoso e stizzito: «Ma allora che vuoi da me?... Comunque, visto che ci tieni tanto a sapere chi sono, da scapicollarti fin quaggiù (che tu abbia però la ripa corsa), sappi che io ho vestito il gran manto papale.


Ma son sempre rimasto figlio dell'orsa, io, talmente avido di vantaggi per i miei orsacchiotti, che sù l'avere e qui me misi in borsa: insomma, che su nel mondo ho intascato quanto potevo, e qui mi sono intascato in un buco. Sotto la mia testa sono già stati tratti giù gli altri papi che simoneggiavano prima di me, e ora stanno appiattiti, a strati, nelle fessure della roccia...».


La celeste maestria di questo contrapasso, lodata all'inizio del canto e certificata dalle immagini del battezzando e dell'assassino, abbonda di referenze e di riscontri. La visione di un monaco cassinense, dettata agli inizi del XII secolo, racconta, ad esempio, di simoniaci cacciati in un gran pozzo di fuoco; un'altra visione monacale, della quale fa menzione san Pier Damiano, narra d'un vecchio conte lorenese che, avendo usurpato una proprietà della Chiesa di Metz, era dannato a starsene su una scala a pioli fasciata dalle fiamme, e a discenderla gradino per gradino verso l'abisso al sopraggiungere d'ogni nuovo erede ecc. ecc.


Nel codice allegorico dantesco, la pena inflitta ai Simoniaci, che espiano un attaccamento cieco ai beni della terra conficcati in terra a capofitto, mentre anticipa vagamente il contrapasso degli Avari in purgatorio, ripete la condizione degli Eretici del sesto cerchio (la distesa di buche, le fiamme, la specializzazione dei singoli reclusòri)... la ripete e, insieme, la ribalta. Decimetro più decimetro meno, questi disgraziatissimi Simoniaci, che hanno praticato l'empietà nel sotterfugio e nell'unzione, non li vediamo dimenarsi oltre l'orlo dei loro pozzetti «da la cintola in giù»?... Mentre le fiammelle che slittano sulla pianta dei piedi di questi papi degeneri, sembrano parodiare i fuochi scesi sulla testa degli apostoli il giorno di Pentecoste, ed evocare la fantasia cimiteriale di aureole fatue, insomma di una specie di contro-aureole per una specie di contro-santità.


Ma il nostro papa sottosopra non aveva finito: «Laggiù,» precisa «nel magazzino delle anime pontificie in fondo al pozzo, cascherò anch'io, appena arriverà quello che pensavo tu fossi, quando m'è scappata la domanda (allor ch'i' feci 'l sùbito dimando). Ma il tempo che ho passato io a cuocermi i piedi a testa in giù è già più lungo del tempo che passerà lui piantato in terra con i piedi rossi. Infatti gli terrà dietro molto presto uno di più laid'opra, che insomma, l'avrà fatta più sporca di lui, un papa fuorilegge che arriva da Occidente, tal che convien che lui e me ricuopra (e che è destinato a cacciarci sotto tutti e due). Sarà un nuovo Giasone: e come il suo re fu arrendevole con quello, con lui sarà arrendevole il re di Francia».


Il Giasone, o Iasón, citato dal papa a testa sotto è un ebreo che, nel 175 a.C., comprò a rate la carica di sommo sacerdote da re Antioco Epifane; indi traviò i preti distraendoli dalla liturgia con mollezze e sfrenatezze alessandrine, come - a quanto precisa lo stesso papa simoniaco - sta scritto nel II Libro dei Maccabei. Ma - ammettiamolo, amico mio - l'omonimia con l'ammiraglio seduttore del canto scorso, per quanto fittizia (nel testo biblico, che è in greco, «Iasón», sta per «Ye‘oshùa‘»)... be', quell'omonimia lì fa un certo effetto... D'altronde, tirandola un po' per i capelli, la metafora coniugale che Dante predilige non rappresenta questi papi simoniaci come seduttori (e ruffiani) d'una bella donna? Non li danna, dopotutto, per circonvenzione (e prostituzione) di Chiesa?


Proviamo a schedare rapidamente i tre pontefici in ballo.


Il nuovo Iasón sarà Clemente V, al secolo Bertrand de Got, nativo della Guascogna, in cattedra dal giugno 1305 all'aprile 1314. Sue massime responsabilità, a giudizio di Dante, che non si stancherà di rinfacciargliele, saranno il trasloco della sede apostolica da Roma ad Avignone (1309) e il tradimento di Arrigo VII imperatore, prima convocato in Italia, poi abbandonato al suo destino e alle sue titubanze (1312-13); ma anche d'altre e tremende colpe il poeta gli fa carico, quantunque non le rinfaccerà mai espressamente a lui. Qui, tuttavia, si allude solo alle sue laide pratiche simoniache, e all'elezione barattata con re Filippo il Bello contro la garanzia di estesissime immunità apostoliche, e - narrano le cronache - del versamento alla corona di Francia di un quinquennio di decime. In realtà, a questa elezione, ordita in una latrina del palazzo di Perugia dove si celebrava il conclave, e che resta uno degli episodi più grotteschi della storia medievale, congiurarono circostanze e personaggi ben altrimenti assortiti...


Di Bonifacio, papa dalla vigilia di Natale del 1294, della sua scandalosa ascesa al soglio, degli svariati misfatti che Dante gli accredita e che la simonia compendia tutti, e dell'odio indefesso di cui lo gratifica Dante stesso, che qui trova modo per sanzionarne la dannazione con tre anni d'anticipo (Bonifacio morirà nel 1303), abbiamo iniziato a parlare nel vestibolo dell'inferno, e smetteremo al sommo dei cieli. Qui ricorderemo, in particolare, la sua famigerata bolla Unam Sanctam, che proclama la potestà assoluta del vicario di Cristo «sulle genti e sui re». Alla sua morte, un portavoce dei fraticelli spirituali esprimerà la ferma convinzione che l'enigmatica bestia dell'Apocalisse fosse lui.


Il pronostico del papa che parla e sgambetta, secondo cui Bonifacio VIII sgambetterà meno di lui, per Sermonti non è così arrischiato da costringerci a inserirlo nel canone delle profezie a posteriori: Clemente V, quando ascese al soglio nel '05, era già molto anziano e malandato, e lui, lo sgambettante, nel 1300 è qui che sgambetta da vent'anni.


Lui, cioè Giovanni Gaetano Orsini, papa Niccolò III dal novembre 1277 all'agosto 1280. Imparentato per parte di madre con Bonifacio, a sentire il buon Villani fu il «primo papa nella cui corte s'usasse palese simonia per li suoi parenti; per la qual cosa gli aggrandì molto di possessioni e di castella e di moneta sopra tutti i Romani, in poco tempo ch'egli vivette». Insomma, ingordo, feroce, e attaccatissimo alla prole come un'orsa, per fare spazio ai suoi orsacchiotti si tenne stretta la mal tolta moneta / ch'esser lo fece contra Carlo ardito: in altri termini, fece tesoro della potenza finanziaria illecitamente lucrata, che gli consentì di tener testa a Carlo d'Angiò, cui effettivamente revocò il titolo di Senatore Romano e la carica di vicario imperiale in Toscana, e contese egemonia e prerogative in Centro Italia. Ben in questo quadro, a fine pontificato promosse la fragile pace fra guelfi e ghibellini di Firenze, cui - se ricordi - accennavamo tre canti fa. Era peraltro bello e di gran tratto, questo papa Orsini, tanto che fu soprannominato «il composto»: quaggiù si dimena come un ossesso.


Giovanni Gaetano Orsini afferma quindi che papa Bonifacio VIII poco resterà nelle stesse condizioni, perché dopo di lui arriverà un papa persino peggiore, il nuovo Iasón, Clemente V, che sposterà la sede del papato ad Avignone. Come faceva Dante a sapere che il papa successivo si sarebbe macchiato di crimini addirittura peggiori rispetto a quelli commessi dal suo acerrimo nemico, papa Bonifacio VIII, ovvero che la sede del papato sarebbe stata spostata ad Avignone da Bertrand de Got, quando Benedetto Caetani sedeva ancora sul soglio di Pietro? Anche questa profezia sembra essere davvero troppo azzardata per essere stata inventata di sana pianta.


Il pellegrino gli risponde per le rime, ed ha anche la faccia tosta di scusarsi se gli è scappata qualche parola di troppo, precisando che, non fosse per la deferenza dovuta comunque alle somme chiavi, sarebbe andato ancora più pesante. Il poeta trascrive.


Nel canto XXIV dell’Inferno., Virgilio interpella il peccatore rinato dalle proprie ceneri domandandogli chi sia. E quello, duro: «Son piovuto in questa gola atroce dalla Toscana, poco tempo fa. Più che una vita da uomo, mi compiacqui di condurre un'esistenza animalesca, dal mulo bastardo ch'io fui. Son Vanni Fucci, / bestia, e Pistoia mi fu degna tana».

Ma il pellegrino Dante, che lo conosce bene, non molla la presa, e incalza il duca suo: «Dilli che non mucci... digli che non scantoni (imputandosi sottintende colpe meno gravi di quelle che lo hanno dannato a questa bolgia: sappiamo infatti che la violenza animalesca che questo figuro ostenta scherma le più losche infamie che lo destinano al penitenziario dei Frodolenti): digli, insomma, che non faccia il furbo, e domandagli qual è la colpa che l'ha cacciato quaggiù: ch'io 'l vidi omo di sangue e di crucci (che varrà, più o meno: "a quel che mi risulta, questo qui era un sanguinario rissoso [non, un ladro]"; o forse meglio: "che questo qui fosse un rissoso sanguinario [lo sapevo da me]: l'ho visto con i miei occhi")...».

Sentita questa, il dannato rinuncia ai trucchi, e drizza verso Dante l'animo e 'l volto, insomma gli pianta animosamente gli occhi addosso avvampando di vergogna e di rancore, poi dice: «Che tu m'abbia sorpreso nel posto miserando dove tu mi vedi, mi dispiace più di quanto m'è dispiaciuto perdere la vita. Ma non posso negar quel che tu chiedi, non posso, insomma, sottrarmi alla domanda che tu mi stai facendo: in giù son messo tanto (sono cacciato così in basso nell'imbuto dell'inferno) perch'io fui ladro a la sagrestia d'i belli arredi: delitto che a suo tempo fu erroneamente imputato ad altri».

Spiace interrompere sul più bello la tirata del torvo farabutto, ma bisognerà pur domandarsi chi fosse, nelle cronache di fine Duecento, questo Vanni Fucci.

Figlio naturale del nobiluomo Fuccio dei Làzzeri, per la sua eccezionale turbolenza Vanni si segnalò presto fra i concittadini pistoiesi, già di per sé a sentir Dino Compagni «forti nell'armi, discordevoli e salvatichi». Quando, nel 1286, una rissa di bettola, inaugura la sfilza di delitti che dividerà la città in due fazioni irriducibili, i Bianchi e i Neri - nomi e faziosità, che contageranno presto Firenze guelfa - , il Fucci soffia sul fuoco con quanto fiato ha in corpo. Tre anni dopo, è incriminato per concorso in omicidio; ma lui s'è arruolato mercenario nella Taglia Guelfa in guerra con Pisa, e si distingue sul campo di Caprona per futili atrocità che fanno inorridire i commilitoni fiorentini, incluso l'Alighieri a cavallo.

Rientrato in città, una notte di carnevale del 1293 capeggia la banda che s'infila in duomo e depreda la cappella di San Iacopo di arredi preziosi, tavole d'argento istoriate, reliquie venerande. Da documentazione carente e contraddittoria risulterebbe, in un primo momento, incolpato del furto sacrilego il figlio d'un suo amico. Sermonti spiega che il figlio dell'amico sarebbe scampato alla forca per un pelo, in quantoché il Fucci, riparato nel contado, avrebbe informato la magistratura d'essere lui il colpevole, con l'arroganza di un'impunità garantita dalla violenza. Secondo il grande dantista Benigni, però, il nome del colpevole si venne a sapere solo dopo molti anni, forse proprio grazie alle rivelazioni offerte dalla Commedia. Certo, da allora Vanni Fucci non mette più piede dentro le mura di Pistoia e, fino allo spirare del secolo e della sua stessa persona, si dà a terrorizzare la campagna pistoiese con una banda di briganti annidata nella rocca di Montecatini Alto. Che sia morto ammazzato, non risulta e lui non dice, dal momento che l'espressione che adopera per indicare la sua dipartita (quando fui de l'altra vita tolto) vale, né più né meno, «quando son morto»: esperienza sufficientemente sgradevole in sé, specie per un dannato, da non rendere indispensabile la presunzione di morte violenta...

Ma qui all'inferno, Dante ci fa sapere che questo matricolato figlio di puttana non merita nemmeno la brasatura nel sangue bollente destinata agli assassini e ai rapinatori. C'è una sinistra grandezza nella loro ferocia e nel loro castigo. Vanni Fucci vanta la sua bestialità bastarda, ma, secondo l'inappellabile teodicea dantesca, non è che un vigliacco e un ladro. E il furto sacrilego, doppiamente vile per l'ubiqua immaterialità del Derubato, riscuote dalla Sua giustizia eterna una terribile giunta di pena.

I Ladri ordinari, gli svelti di mano (eccoci al contrappasso), sono ammanettati e imbracati per i secoli dei secoli da serpenti, viscidi e furtivi come la loro colpa. Vanni, ladro d'altare, in più deve patire periodicamente l'annientamento nella cenere, che le sacre scritture eleggono (con la polvere) a simbolo della miseria della creatura di fronte al creatore: è costretto, insomma, a constatare periodicamente, senza il sollievo della penitenza, che l'uomo ladro è nulla e il Dio derubato è tutto il resto.

Il ladro Vanni Fucci nel XIV sec., stando a quanto riporta Benigni, non era ancora stato accusato di essere il responsabile del furto avvenuto alla cappella di San Iacopo, quindi quella di Dante sembra essere una profezia. Non essendo nota con precisione la data in cui sono state scritte le pagine del canto XXIV dell’Inferno, non è escludibile l'ipotesi che si tratti di una profezia vera e propria.


Nello stesso canto XXIV dell’Inferno il dannato Vanni Fucci pronuncia una profezia che turba il protagonista. La citazione sallustiana incastonata nel canto sta a ricordarci che il profeta dannato, con la feccia dei suoi concittadini e con le «bestie fiesolane», va messo nel mazzo dei pronipoti di Catilina.

Genealogia immaginaria, di cui, peraltro, Vanni pare che in vita si vantasse molto. E adesso, in morte, chissà quanto ghigna a tirare in causa, come eversore della Parte Bianca, proprio quel marchese Moroello, il quale nel 1306 - indelebile, nei dannati, è la memoria del futuro - offrirà asilo onorevole e affettuoso al fuoruscito Dante, riscuotendone in cambio la gratitudine perpetua (se ne parla in testa all’VIII dell’Inferno, e se ne riparla in coda all’VIII del Purgatorio).

Più quel ficcanaso d’oltretomba si turba, più gode il Fucci smascherato. Anzi, nel timore che l’effetto della profezia risulti un po’ attutito dall’oscurità del parlar figurato, il ladro cambia di colpo registro, e sputa fuori: «sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto»; tanto per dire: «e questo fulmine di guerra ti lascerà il segno, a te, e a tutti i Bianchi tuoi pari»... E, a scanso di equivoci, ci tiene a precisare, con la pedanteria del rancore: «E detto l’ho perché doler ti debbia!».

Dei versi della Divina Commedia non è nota la punteggiatura, quindi figuriamoci se può essere nota la data in cui sono state scritte le pagine del libro. Le profezie poi concretizzatesi potrebbero essere state formulate effettivamente prima del 1300.

Così Vanni Fucci, bestia e ladro, conclude canto e profezia con uno dei versi più ferocemente ridondanti del poema sacro in cui sta scritto, e grandeggia in turpitudine per sempre, ladro e bestia.


E nel XXV dell'Inferno, dopo la prodigiosa metamorfosi che vede un dannato convertirsi in un lucertolone e viceversa, torna ad udirsi il raspio della scrittura: «Così» si scusa Dante tirando le fila «io vidi la ciurma, anzi la zavorra della settima bolgia mutare e trasmutare; e la novità dei fatti narrati conto mi valga da giustificazione, se fior la penna abborra: se, insomma, la penna ha abborracciato un tantino (fior ha nell’italiano antico il valore avverbiale di “un po’”)».

Anche per questa «excusatio» la retorica medievale ha una casella.

Resta il problema di conciliarla col «vanto» di suprema perizia letteraria che introduce l’ultima metamorfosi, posto che il vanto abbia proprio quell’oggetto.

È vero che nella cultura dell’età di Dante vigeva la persuasione che le favole della mitologia acquistassero in profondità e in trasparenza nelle parafrasi dei poeti cristiani, ai quali competeva il doppio privilegio di conoscere per rivelazione e adombrare per allegoria le verità inconsapevolmente depositate nelle pagine degli antichi. Sennonché qui Dante il personaggio poeta che si gloria di scrivere cose che non ha mai letto non parafrasa al meglio i suoi classici latini, stanando significati ulteriori dalle loro favole: o, quanto meno, non di quest o sembra volersi gloriare. Si gloria, piuttosto, di raccontare, magari abborracciando un po’, i veri portenti di Dio il Mago, cui egli ha veramente assistito da pellegrino d’oltremondo, e che superano a tal punto e per maestria artistica e per caratura s imbolica tutti i portenti fittizi raccontati da Lucano o da Ovidio, anzi tutti i portenti immaginabili... che lui, il poeta, ti ha già scusato, se farai fatica a credergli, lettore.

È il vecchio quesito: ma Dante vuol proprio convincerci di averlo fatto per davvero, questo viaggio nell’oltretomba?

Senza permetterci il lusso di rispondere, a questo punto possiamo almeno registrare un dato: che la pretesa d’aver visto con i propri occhi quello che mette per iscritto, autorizza lo scriba di Dio ad adottare in queste terzine il nitore freddo del referto scientifico, a intimarci con oggettività allucinata la vertigine d’una febbre mentale che davvero non ha riscontro nelle letterature antiche. Almeno questo, sì: possiamo cominciare a registrarlo.


Nel canto XXVI dell’Inferno, anche noto come il canto di Ulisse, l'eroe greco vide - racconta - l'una e l'altra costa del bacino occidentale del Mediterraneo (l'europea, fino alla Spagna; l'africana, fino al Marocco), e la Sardegna, e quant'altre isole bagna quel mare. Finché, invecchiati e appesantiti, egli ed i suoi compagni non pervennero al varco dove, per diffidare gli umani dall'inoltrarsi più in là, nell'ignoto, Ercole aveva piantato i suoi segnali (li suoi riguardi: e son le colonne di roccia che miticamente iscrivono lo stretto di Gibilterra).

Nel mito viene spiegato che Ercole, dopo aver compiuto l'ennesima fatica, scolpì l'epigrafe non plus ultra sulle colonne d'Ercole.

La locuzione latina non plus ultra o nec plus ultra, tradotta letteralmente, significa non più avanti, in contrapposizione all'altro motto plus ultra (sempre avanti).

Secondo la mitologia greca, l'iscrizione fu scolpita da Ercole su due monti, le cosiddette Colonne d'Ercole (stretto di Gibilterra), creduti i limiti estremi del mondo, oltre i quali era vietato il passaggio a tutti i mortali.

Ercole raggiunse il limite del mondo e separò il monte presente in due parti: i due monti si chiamarono Abila in Africa e Calpe in Spagna. La prima delle due colonne è la Rocca di Gibilterra, l'altra una montagna africana. Nel XIV sec. non era ancora stata scoperta l'America, quindi il merito di Dante fu quello di dare credito e risalto all'unico mito della mitologia greca che mise in guardia il genere umano dall'oltrepassare lo stretto di Gibilterra. La storia ha poi dimostrato che la scoperta dell'America, oltre che causare lo sterminio di almeno cento milioni di nativi americani, si è effettivamente rivelata nociva per le popolazioni di tutti gli altri Paesi, alimentando la crescita dell'impero che da sempre adotta una politica estera aggressiva e guerrafondaia. Viene da chiedersi perché Dante abbia dato una tale visibilità ad un mito che vieta il superamento dello stretto di Gibilterra, dato che fino a quel periodo storico non potevano essere note le conseguenze della scoperta del continente americano.


Nel canto XXVII dell'Inferno il pellegrino s'imbatte nell'anima ghibellina del conte Guido I da Montefeltro: nella prosa del guelfo Giovanni Villani, «il più sagace e il più sottile uomo di guerra che a quei tempi fosse in Italia». Nato fra il 1220 e il 1225, Guido è titolare dell’estesissima contea in predicato e, dal ’55, anche della contea di Urbino. La sua fama s’impone fuori dalle Romagne nel 1268, quando il comandante dell’esercito imperiale lo insedia a Roma come suo vicario nella brevissima e tragica estate di Corradino (notoriamente archiviata a fine agosto dalla cosiddetta battaglia di Tagliacozzo). Nel maggio ’82, a Forlì, intrappola e macella memorabilmente le milizie italo francesi del papa. Ma l’anno dopo, macerato da una tenace devozione per il santo poverello di Assisi (l’uomo è singolarissimo!), abbandona d’improvviso la lotta, e si rimette alla clemenza di papa Martino IV, che lo relega al confino, prima a Chioggia, poi ad Asti.

Ma nell’autunno del ’94 lo ritroviamo a Napoli, genuflesso sulla pantofola del papa, che lo confessa, lo assolve e lo reintegra nei suoi diritti ereditari. Alla vigilia del Natale ’96, il papa successivo gli regala il panno per il saio, i sandali e il cordiglio francescano. Per modo che quel grande condottiero morrà nel 1298, fraticello minore, forse ad Assisi. Nel Convivio, Dante Alighieri ha lodato «lo nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano», per essersi ridotto in porto nell’estrema età della vita, con le vele religiosamente ammainate, avendo deposto «ogni mondano diletto e opera». E lo addita ad esempio. Come mai ora lo caccia quaggiù, fra tanti comprimari del suo ineguagliabile curriculum?

All’inferno, infatti, son proprio tanti: il gran prete, ovvero lo principe d’i novi Farisei che gli dona la veste è papa Bonifacio VIII, Simoniaco in pectore; quello che lo perdona è Celestino V, l’Ignavo che fece per viltade... e via dicendo; l’arcivescovo che lo convoca a Pisa è Ruggieri degli Ubaldini della Pila, nipote del famoso Cardinal Ottaviano (eretico), il quale arcivescovo ci aspetta conficcato nel ghiaccio dei Traditori e masticato dal conte Ugolino; Guido Bonatti, Indovino, gli presta per un ventennio la sua apprezzatissima consulenza astrologica ecc. Toccati appena gli eventi storici cui abbiamo accennato, l’anima di Guido, accecata dalla luce che la nasconde, prende a ruotare ossessivamente intorno a tre versi e mezzo maledetti. L’episodio in cui cadono e che marca il punto senza ritorno della sua dannazione, il limite irrevocabile d’un eterno disinganno, non ha puntuale conferma storiografica, né potrebbe pretenderla. Si tratta, infatti, d’un abboccamento segretissimo fra Guido e Bonifacio VIII, che Sermonti dichiara non essere mai avvenuto probabilmente. Dante, comunque, non se lo sta inventando, se una cronaca contemporanea ne profila circostanze, argomenti ed esiti: è, anzi, verosimile che proprio in quanto, a un certo punto, gli venne all’orecchio notizia del presunto colloquio «top secret», il poeta abbia modificato il suo giudizio sul nobilissimo montefeltrano, e sigillato con la morte eterna la sua avventura terrena o si potrebbe ipotizzare che l'incontro segreto sia avvenuto realmente e che sia stato rivelato al poeta per intercessione divina.



Nel canto XXIII dell'Inferno, la romanza del pellegrino s'interrompe sull’incipit «O frati, i vostri mali...». Scriverà il poeta: «ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse / un, crucifisso in terra con tre pali». E tu nota come la tragica singolarità del nuovo soggetto sia marcata dal pronome indefinito un, isolato a capo di verso tra l’enjambement che lo incalza e la virgola che introduce la subordinata...

Il quale un, appena vede Dante, si torce tutto, rantolando sospiri nella barba.

Catalano prende atto della situazione, e spiega: «Quello che guardi confitto sul terreno convinse i Farisei che meglio era mandare al supplizio un uomo solo, che non lasciar morire un popolo intero. Nudo, come vedi, e sdraiato di traverso sulla via, è costretto a sentire qualunque passa, come pesa, pria, il peso, insomma, di ciascuno di noi, prima che abbia finito di passargli sopra. Nello stesso modo tribola in questa fossa suo suocero e quanti altri parteciparono alla seduta che fu per gli Ebrei mala sementa».

Si tratta di Càiphas, genero di Annas e, con lui, sommo sacerdote e presidente del sinedrio che deliberò di rinviare Cristo al giudizio del procuratore Ponzio Pilato con l’imputazione capitale di millantarsi re dei Giudei; poi istigò il popolo a optare per il proscioglimento di Barabba.

Sermonti aggiunge che, per verità, gli argomenti addotti da Càiphas ai Farisei del sinedrio eran tutt’altro che futili e pretestuosi (l’adorazione popolare per il Figlio di Dio avrebbe potuto effettivamente provocare una sommossa, le rappresaglie dei Romani e severe restrizioni del potere dei sacerdoti ebrei); e il Vangelo di Giovanni l’unico che registri quegli argomenti non fa parola dell’ipocrisia del sommo sacerdote; sulla quale, viceversa, insistono i vangeli sinottici. Ma per Dante la verità della rivelazione è, manifestamente, indivisibile. D’altronde, Giovanni stesso, nel testimoniare la parola di Gesù all’ultima cena («se non avessi fatto fra loro cose che nessun altro ha fatto mai, non avrebbero colpa; ma ora le hanno viste, e hanno odiato tanto me quanto mio Padre») sanziona la malafede dei preti del sinedrio.

Colpevole di aver barattato la vita di Cristo con i privilegi della casta sacerdotale, e di aver procurato la revoca della predilezione divina per il popolo ebraico, Càiphas deve sopportare per l’eternità il peso non della propria, ma di tutta l’ipocrisia del mondo.

È difficile comprendere come un uomo di soli trentacinque anni possa, nel canto XXIII dell’Inferno, aver descritto così minuziosamente un aspetto psicologico del capo del sinedrio Càiphas, che accortosi della presenza di un vivo tra i dannati della bolgia infernale degli ipocriti, si volta disturbato per non farsi riconoscere dal poeta, presumibilmente per timore che il vivo racconti, una volta tornato a riveder le stelle, della sua presenza nell’inferno tra gli ipocriti, come volesse nascondere il fatto che, trovandosi in quel luogo maledetto, egli fosse consapevole sin dal principio delle reali motivazioni che lo spinsero a prendere la fatidica decisione nei confronti di Gesù Cristo. Càiphas fece quindi arrestare e crocifiggere Gesù Cristo ipocritamente adducendo a buone intenzioni in realtà inesistenti. In altre parole, Càiphas pensò di averla fatta franca agli occhi della storia, sia da vivo che da morto sino all’arrivo di Dante. Inoltre, è smisuratamente profondo e complesso il contrappasso personalizzato pensato da Dio unicamente per Càiphas, che è costretto a subire il peso dell’ipocrisia del mondo, crocifisso con tre paletti in terra (e non verso il cielo, al contrario di Gesù Cristo).



Nel canto XXVIII dell'Inferno, mentre diversi dannati a brandelli si arrestano trasecolando, Maometto, che era sul punto di avviarsi, ci ripensa: «Allora, visto che, a quanto pare, fra poco tornerai al mondo, di’ a fra Dolcino che, se non vuol raggiungermi troppo presto qua sotto, s’armi sì di vivanda, insomma, si rifornisca di viveri a sufficienza, per resistere al blocco della neve, e scongiurare la vittoria del Novarese: vittoria, in sé, tutt’altro che agevole».

Proferita questa raccomandazione, a parere di Sermonti inutile, Maometto se ne va, tetro e protocollare, poggiando per terra la pianta del piede che, alla notizia che il nostro pellegrino era vivo, aveva piantato in terra sul tallone...

E questo fra Dolcino chi è?

È Dolcino Tornielli, originario della val d’Ossola, discepolo di tal Gherardo Segarelli da Parma, cioè del fondatore della setta degli Apostolici. Quando, nel luglio 1300, Gherardo verrà spedito sul rogo, fra Dolcino assumerà la guida della setta.

Acceso di spirito profetico, rigoroso e combattivo, come il suo maestro era stato fatuo e cialtrone, fra Dolcino finirà per tirarsi addosso una vera crociata, indetta da papa Clemente V, e guidata sul campo dal vescovo di Novara (il Noarese, appunto). Con cinquemila tra combattenti, vecchi, donne e bambini, fra Dolcino si vedrà presto costretto a riparare sui monti sopra il Biellese (più o meno, dove oggi si sviluppa la Panoramica Zegna), e lissù, dopo impavida e disperata difesa, ad arrendersi (marzo 1307) più al freddo e alla fame che non alla milizia crociata. Sarà spolpato con le tenaglie ed arso vivo. Si narra non battesse ciglio.

Personaggio, insomma, ragguardevole, questo ossolano, il quale contestava la legittimità della donazione di Costantino; predicava il ritorno alla Chiesa povera delle origini (magari, propugnando un comunismo economico e sessuale un po’ estremo); invocava l’avvento d’un principe nuovo (ma preferibilmente francese) che avrebbe restaurato l’ordine «in temporalibus» (previo, magari, un eccidio di cardinali); e detestava con tutto il fuoco dell’anima sua tanto Bonifacio VIII, principe d’i novi Farisei (ricordi?), quanto Clemente V (ricordi?), pastor sanza legge.

Lo stesso Sermonti scrive nel suo commento "C’è da chiedersi come mai Dante Alighieri, che condivide con fra Dolcino nella sostanza tante idee e tante passioni, lo destini a questo orripilante mattatoio, insieme a Maometto, il quale sembra, fra l’altro, aver molto a cuore il destino del fraticello. Strano, no?". La cosa pare effettivamente strana, tanto da porre legittimi sospetti su chi sia il vero autore dell’opera. Inoltre si segnala che anche questa raccomandazione per fra Dolcino può essere annoverata tra le profezie dell'autore, dato che la Commedia potrebbe essere stata scritta davvero nell'anno 1300, anziché negli anni immediatamente successivi.

Ma non c’è tempo di rispondersi... che ecco già farsi sotto un altro, che forata avea la gola, il naso asportato, un orecchio solo.

Di quest’ultimo arrivato, tale Pier da Medicina, sappiamo poco più di quel che confessa in questi versi rantolati per la cannula tracheale, tutta orlata di sangue: che conosceva Dante di persona, e ora lo riconosce, sempre che non si tratti di un sosia; che fu signore, appunto, del borgo di Medicina, fra Bologna e Lugo di Romagna, là nel dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina (cioè, nella «pianura padana», Marcabò essendo una fortezza alle foci del Po di Primaro); che fu, forse, a servizio di messer Angiolello (di Carignano) e messer Guido (del Càssero), i due più ragguardevoli personaggi di Fano. E ora raccomanda al pellegrino in carne e ossa di metterli in guardia, quei due, dal tradimento di un tristo tiranno: quello che vede pur con l’uno.

Infatti Malatestino Malatesta, fratellastro guercio di Paolo e Gianciotto, convocherà Guido e Angiolello a Rimini e, sulla via del ritorno, al largo di Cattolica, li farà «mazzerare», cioè buttare a mare chiusi dentro sacchi zavorrati («màzz era» è, appunto, la zavorra di pietre che àncora le reti al fondo): delitto di cui Nettuno non ha visto l’eguale nel Mediterraneo quant’è largo, da Cipro a Maiorca (Maiolica) né per mano dei pirati né per mano dei famigerati marinai greci (gente argolica). Inutile, a quel punto, che i due disgraziati si prendano pena di invocare la clemenza del vento che soffia giù dalle colline di Focara, sopra Pesaro.

Ignoriamo per qual motivo Pier da Medicina si dilunghi in questa raccomandazione divinatoria, cui si fa scrupolo di premettere: «se l’antiveder qui non è vano»... ché certo, agli effetti della prevenzione, questo avviso per i naviganti, come quello di Maometto per fra Dolcino, oculato che sia, per Sermonti è assolutamente superfluo. Sennonché, siccome non si hanno le prove documentali che la profezia di Piero si sia avverata, Sermonti aggiunge che le congetture psicologiche più stravaganti sono state impunemente congetturate.

Il punto è che non sappiamo nemmeno per quali crimini Pier da Medicina sia quaggiù a brandelli. Un antico commentatore ci garantisce che fu «seminator di scandalo tra’ cittadini bolognesi e tra i tiranni di Romagna». Tanto varrà prenderlo in parola.

Di questo povero tracheotomizzato resta, comunque, nella memoria il magone perifrastico con cui commemora la sua pianura padana: lo dolce piano / che da Vercelli a Marcabò dichina... Lo ricordiamo ricordare.

Come per evocare la Padania, anche per designare Rimini, città malatestiana, Piero ha messo in atto una perifrasi. Ma molto più tortuosa: «la terra» ha detto «che un tale, ch’è qui con me, vorrebbe di vedere esser digiuno (insomma: avrebbe fatto volentieri a meno di conoscere)».

E Dante, a tempo debito: «Chi è questo, cui la vista di Rimini è risultata così indigesta (chi è colui da la veduta amara)?».

Allora Pier da Medicina afferra un suo compagno per la mandibola, e gli spalanca la bocca proclamando: «Eccolo, non può parlare. Questo qui, scacciato da Roma, vinse le ultime perplessità di Cesare, affermando che ’l fornito / sempre con danno l’attender sofferse: argomentando, cioè, che chi è pronto per l’azione (fornito vale il latino "paratus"), a dilazionarla ci ha sempre rimesso»

«Povero Curio!» chiosa il poeta. «Come s’era ridotto, con la lingua tagliata ne la strozza, lui che parlava tanto!»

Tribuno della plebe, pompeiano all’origine, passato poi per denaro nel campo avverso, questo C. Scribonio Curione, dopo aver tentato senza successo di mediare fra le parti, non appena il senato proclama Giulio Cesare nemico pubblico (7 gennaio 49 a.C.), scappa da Roma e raggiunge il proconsole ribelle, per l’appunto, a Rimini. Alla circostanza che Curione avrebbe influenzato Cesare nella decisione di marciare su Roma, gli storici antichi - Cesare per primo - non fanno cenno. Dopotutto, Rimini è sempre stata a sud del Rubicone, e dunque, al momento dell’incontro fra i due, il dado famoso era già stato tratto...

Chi assegna al «tribuno sfrontato e di lingua mercenaria» il ruolo chiave del sobillatore che spazza via le ultime remore di Cesare, è Lucano, il quale nel I libro della Farsaglia, fra cento altri, gli mette in bocca l’esametro che qui Pier da Medicina volge, pari pari, in discorso indiretto: «tolle moras: semper nocuit differre paratis».

Che Dante si attenga a Lucano, non sorprende. Ma è curioso che nell’epistola a Arrigo VII dell’aprile 1311 - se ne parla a margine del IX canto - trascriva poi questo stesso esametro (con altri due contigui), per sollecitare quel «santissimo e gloriosissimo» all’impresa salvifica di passare l’Appennino e liberare l’Italia intera. Saggio, dunque, e ben detto, il consiglio di Curione... D’altronde, sappiamo bene come Dante consideri letteralmente «sacrosanta» l’impresa di Cesare. Perché allora caccia il povero tribuno che la aveva propiziata con la sua eloquenza, in questa bolgia orrenda, con la lingua mozza?

Perché - e qui Sermonti prova a solfeggiare il pensiero di Dante - , sebbene con quelle parole assecondasse il disegno provvidenziale mirato alla fondazione dell’impero romano, Curione, nell’esercizio concreto della propria libertà morale, con quelle parole aveva istigato Cesare alla guerra civile, alla strage di concittadini. Nella fede del poeta cristiano la salvezza o la dannazione eterna competono a ciascuno di noi, in quanto a ciascuno Dio ha lasciato l’arbitrio assoluto delle proprie scelte. Anche se lui sa già tutto. Anche se tutta la storia umana, tutto il futuro in cui ci avventuriamo a tentoni, soli, è presente da sempre alla sua pietà e al suo rigore.

Così, pure fra Dolcino, quantunque contro i papi farisei lo accendesse la collera più impavida e giusta, piomberà quaggiù tra i Seminatori di discordia, perché, solo, nella disperata libertà della sua coscienza, ha tentato di lacerare l’unità della Chiesa, di strappare il mantello senza cuciture, la «tunica inconsutilis» del Cristo (come, a sentir le favole crociate, lo stesso Maometto).

Dante sarà bene ricordarlo era cattolico.

Anche in questo caso, si può ipotizzare che la profezia riguardante l'infausto destino che accomuna messer Angiolello (di Carignano) e messer Guido (del Càssero) sia reale, se le pagine in cui è impressa furono scritte nel 1300.

Nella parte conclusiva del canto XXVIII dell'Inferno, l’io pellegrino ha appena liquidato l’anima del Mosca, raddoppiandole la pena col brusco rinfaccio, e quella è uscita di campo incupita e stralunata (trista e matta)... che vede cosa di cui l’io poeta si farebbe scrupolo di parlare, non potendo esibirne prova alcuna, se non lo confortasse la buona coscienza che protegge e rinfranca l’uomo con la ferrea convinzione della propria integrità (sotto l’asbergo del sentirsi pura).

Dunque, l’io pellegrino vide distintamente, tanto che all’io poeta sembra ancora di vederlo, un busto decapitato procedere nella trista greggia dei dannati, brandendo per i capelli a guisa di lanterna la propria testa tronca e pendula (pésolo, dal latino «pe[n]sile[m]»); e la testa guardava i due viandanti, e gemeva fioca, facendo luce con gli occhi a chi la brandiva; ed eran due in uno e uno in due (sa il legislatore celeste, come questo sia possibile...).

Il poeta sottolinea che si sente rinfrancato dalla ferrea convinzione della propria integrità, proprio come chi dice il vero e non ha timore di esternarlo, per quanto possa sembrare assurdo ciò che ha da dire.


Passiamo al canto XXXIII dell'Inferno ed alla narrazione della tragica vicenda vissuta dal conte Ugolino e dai suoi quattro figli sventurati.

La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a' capelli / del capo ch'elli avea di retro guasto. // Poi cominciò... Nelle primissime battute, la più popolare, la più straziata, la più lunga romanza dell'Inferno di Dante.

«Infandum, regina, iubes renovare dolorem» attaccava Enea la sua fluviale recitazione di sventure nel II dell'Eneide... «Tu vuo' ch'io rinovelli» attacca Ugolino «disperato dolor...». «Dirò come colui che piange e dice» mormorava Francesca, prima di sciogliere nel pianto il suo flusso di rimpianto... Ugolino chiude il breve preludio: "parlare e lagrimar vedrai insieme".

La gentildonna romagnola racconterà l'epilogo della sua storia d'amore per compiacere un pietoso ascoltatore sull'orlo delle lacrime; a suo tempo, il principe troiano con le lacrime aveva lubrificato il dolore di pronunciare un dolore impronunciabile al cospetto d'una regina splendida e turbata.

Sia nel rapporto con l'interlocutore (gelido e ombroso), sia nella finalità della prestazione (ferinamente vendicativa), sia nell'assolutezza del dolore (perfettamente immune dai mesti sollievi della nostalgia), il racconto del traditore cannibale differisce alla radice da quelli di Francesca e di Enea. Se poi lo spettatore solitario è fiorentino, come denuncia la calata, tanto meglio: non ci sarà nemmeno bisogno di declinare l'antefatto. Basterà fare i nomi: lui è conte Ugolino; quell'altro è l'arcivescovo Ruggieri.

Lo spettatore d'oltremondo si domanderà perché mai conte Ugolino pratichi quell'efferato genere di promiscuità con l'arcivescovo Ruggieri; perché con lui eserciti in modo tanto aberrante la mansione di prossimo suo; insomma dice il conte «perché i son tal vicino».

Inutile, al proposito -- taglia corto --, ripetere come, per effetto delle trame del prelato, nel quale riponeva fiducia, egli fosse stato catturato e lasciato morire in carcere: questo lo sanno tutti, e non è per questo che adesso gli mastica la nuca. Nessuno, però, può aver narrato all'incognito interlocutore l'atrocità di quella morte. Ascolti, e giudichi l'entità dell'offesa che conte Ugolino ha patito da quell'arcivescovo lì.

Controsoggetto del sogno. In una feritoia della torre dove era recluso, il vecchio nobiluomo aveva già sbirciato la vicenda di molte lunazioni, quando lo visitò il sogno premonitore: quello, il Ruggieri, è capobattuta d'una brigata che bracca un lupo e i suoi cuccioli su per la montagna; in prima fila ha disposto i cacciatori blasonati con la muta delle cagne; rapido, l'inseguimento: il lupo padre e i lupacchiotti figli han subito il fiato corto; e subito le cagne li han raggiunti e li sbranano ai fianchi coi denti aguzzi.

Nel controsoggetto affiorano due nuclei tematici: i figli e la famelicità. E abbandonandosi ora al tema principale, la voce di baritono li riprende in minore: anche nella torre carceraria veniamo a sapere ci sono figli; destandosi prima di giorno, Ugolino li sente piangere e chiedere pane nel dormiveglia (tutti veniamo a sapere han sognato lo stesso sogno).

Ma l'abbandono melodico è bruscamente interrotto da una cadenza singhiozzata: ben se' crudel, se tu già non ti duoli / pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava; / e se non piangi, di che pianger suoli?... Poi subito torna a spiegarsi, languido e tenebroso, irrefrenabilmente «rallentando», «fino in fondo».

E la romanza del conte Ugolino intona la sospettosa attesa del pasto la percussione del martello che inchioda l'uscio di sotto il padre che guarda i figli nel viso, e non apre bocca, non piange, pietrificato; i figli che piangono, invece, e Anselmuccio, il più piccolo, che, chissà, tirando su per il naso, balbetta: «Tu guardi sì, padre! che hai?»; il silenzio che si inarca in una interminabile «corona» sul giorno muto e sulla muta notte; il barlume d'alba che torna a filtrare nel carcere, e lui, padre, che scorge il suo proprio aspetto riflesso nei quattro visi dei figli (quattro sono), specchia il proprio dolore nella loro fame, e si morde le mani, per dolore; e loro, figli, che pensano sia per voglia di metter qualcosa sotto i denti, e gli offrono in pasto le loro misere carni, di cui lui li ha vestiti: «Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi...»; e il padre che si ricompone, per non farli più tristi, e altre ventiquattr'ore, e ancora altre ventiquattro, che trascorrono nel «tremolo» incessante dei secondi... nemmeno un accordo stentoreo (ahi dura terra, perché non t'apristi?) altera quel martirio infinitesimo... e identico, dall'accordo, riaffiora il «tremolo» del quarto giorno; e Gaddo, il più grande, che si butta in terra, e dice, grida piano il terzo Pater: «Padre mio, ché non m'aiuti?», e lì muore. «E come tu ora stai vedendo me,» rantola il vecchio baritono senza tagliare il tempo «vid'io cascar li tre ad uno ad uno / tra 'l quinto dì e 'l sesto», finché il settimo giorno, la abominevole domenica di questa creazione retrograda, il padre resta solo, e si dà a brancolare cieco sui quattro corpi di figlio; e due giorni filati li chiama, poi che fur morti... Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno.

Dunque come ben noto la cella in cui vennero reclusi conte e figli era nella torre dei Gualandi alle Sette Vie, detta anche torre della Muda, forse perché «vi si tenessono l'aquile del Comune a mudare», cioè a cambiare le penne. In seguito al miserando caso del conte e dei figli -- e il conte pare quasi vantarsene --, il popolo la intitolerà «torre della fame». Oggi, del sinistro edifizio dovrebbe conservarsi qualche pietra nel corpo del Palazzo dell'Orologio, che dal primo Seicento si affaccia sulla piazza dei Cavalieri, e dai tempi di Napoleone sbircia la Scuola Normale... di Pisa, naturalmente.


Dato che l'accesso alla torre dei Gualandi fu impedito ai familiari del conte dai sigilli applicati alla porta d'ingresso, nessuno sa come siano andate effettivamente le cose nelle ultime giornate di reclusione. Si potrebbe ipotizzare che il sogno ed i dialoghi narrati siano autentici e che le rivelazioni offerte dal conte Ugolino durante il viaggio mistico siano attendibili e che siano state trasmesse a Dante per intercessione divina.

Il conte Ugolino, con i versi che seguono, afferma che la torre dei Gualandi verrà usata nuovamente per condannare altre persone:

"22 Breve pertugio dentro da la Muda

la qual per me ha il titol de la fame,

e che conviene ancor ch'altrui si chiuda,

25 m'avea mostrato per lo suo forame

piú lune già, quand'io feci 'l mal sonno

che del futuro mi squarciò 'l velame"

Ci si domanda come abbia fatto l'autore a prevedere che l'edificio sarebbe stato utilizzato per recludere altri prigionieri, come poi è avvenuto, dato che ufficialmente la Commedia è stata scritta attorno al 1300 d.C.. Sembrerebbe trattarsi di un'ennesima profezia avveratasi.


Quando Virgilio domanda dove si trovi l’imbocco più prossimo della scala, nel canto XVIII Purg., un'anima gli risponde trafelata, che s’accodi al gruppo; loro non possono fermarsi, né lo desiderano; se lo strano interlocutore considera scortese quest’ottemperanza alle disposizioni celesti, li perdoni. E si presenta a volo: fu abate del monastero di San Zeno a Verona, quando imperatore era Federico Barbarossa, che (nel 1162) rase al suolo Milano ribelle, e fece bene (è l’opinione dell’abate), e i Milanesi ancora s’incupiscono al ricordo, s’incupiscano!... «C’è un tale con un piede nella fossa,» soggiunge l’accidioso continuando a correre «che presto rimpiangerà, defunto, d’avere avuta possa (come dire: l’abuso di potere, esercitato nel monastero veronese). Infatti, nel posto che spettava all’abate legittimo, ha piazzato un figlio suo mal del corpo intero, / e de la mente peggio (piuttosto storpio, insomma, e del tutto idiota), e che mal nacque (e bastardo per giunta).»

Se a questo punto l’anima penitente dicesse altro, Dante non sa, di tanto ormai li aveva sorpassati, pover’anima in jogging; ma quel che ha sentito e si compiace di ricordare, gli basta.

A noi verrà comodo un minimo supplemento d’istruttoria.

In realtà, del parlante sappiamo solo quel che lui stesso depone in questi versi: che fu priore della prestigiosa e opulenta abbazia veronese di San Zeno nella seconda metà del XII secolo. Qualcosa in più sappiamo dell’oggetto della sua pia delazione.

Quello che ha già l’un piè dentro la fossa è Alberto della Scala, signore della città dal 1277, che in effetti ha un piede nella fossa: infatti morrà nell’imminente 1301. Fu politico energico ed astuto. Per rimeritarlo d’un bel rogo di patarini lombardo-veneti messo in scena all’arena di Verona, papa Onorio IV gli concede il privilegio speciale di avviare alla carriera ecclesiastica anche figli illegittimi, in deroga alle prescrizioni canoniche; e lui, nel 1292, affida l’abbazia di San Zeno al bastardo Giuseppe, con tutto che fosse guasto nel corpo e nella mente, e - pare proprio - gran farabutto.

Quando, nel 1314, Giuseppe muore, signore di Verona è il terzo dei suoi fratellastri e figli legittimi di Alberto, subentrato ai due precedenti (Bartolomeo e Alboino), deceduti entrambi: si tratta di Cangrande, il «magnificus atque victoriosus dominus dominus Canis Grandis de la Scala», cui Dante, ospite suo devotissimo sul declinare della vita, dedicherà famosamente il Paradiso.

Crea problema a più d’un dantista il fatto che qui lo stesso Dante aggiudichi all’abate di San Zeno un giudizio così duro, non solo su un fratellastro di Cangrande (che Cangrande, peraltro, non risulta prediligesse), ma anche su suo padre Alberto (che Cangrande invece venerava) e, soprattutto, sul malcostume dei prìncipi che interferiscono nelle pertinenze della Chiesa: malcostume che Cangrande stesso non accennerà affatto a dimettere, anzi incrementerà imponendo all’abbazia di San Zeno, nel ’21, per continuare a gestirne in famiglia l’ingente patrimonio, un figlio dell’abate Giuseppe, bastardo al quadrato.

E avrai notato come l’atteggiamento deprecatorio dell’anima al galoppo, perfettamente complementare a quello di Marco Lombardo in ordine alle interferenze dei preti nella giurisdizione civile, riscuota l’approvazione piena del pellegrino Dante, che da poeta ci tiene a confermarla. Allora?...

Sermonti spiega la presunta contraddizione constatando che l’Alighieri, esule spaurito e scalcagnato, per quanta gratitudine e benevolenza dimostri - come più che umano - ai suoi benefattori, non è uno spregevole leccapiedi. Il dantista prosegue spiegando che si tratta certo di un caso raro, qui da noi, ma che dovremmo tuttavia compiacerci di non considerare disumano. In realtà sembra evidente che l'autore di queste pagine non sia lo stesso pellegrino che ha trovato rifugio nella dimora di Cangrande.



Nel canto XXXII del Purgatorio, il poeta nota «era tornata ad insediarsi nei miei occhi quella che mi aveva precluso ogni altra percezione». E prosegue: «Sola sedeva (Beatrice) su quella terra vergine (se qualcosa del genere significa “in su la terra vera”), a guardia del carro trionfale che avevo visto legare all’albero dalla fiera biforme. In cerchio la coronavano e proteggevano tutte e sette le ninfe virtuose, le quali adesso impugnano i sette candelieri, che non temono di spegnersi per l’impeto dei venti, tempestino da nord o da sud (da Aquilone o da Austro)».

Noi non sappiamo perché mai le sette Virtù al completo impugnino, e proprio adesso, i sette doni dello Spirito Santo. Il buonsenso si racconterebbe che Nostro Signore, nell’ascendere al cielo con i testi della rivelazione, ha lasciato il carro della sua Chiesa vincolato all’albero della Legge Divina dal nuovo patto siglato dalla propria obbedienza sacrificale, sotto la custodia della Sapienza Rivelata (in persona di Beatrice), presidiata a sua volta dalle quattro Virtù Cardinali infuse e dalle tre Teologali (per un totale di sette Ninfe), e illuminata dai ceri dei sette doni dello Spirito Santo.

Ma vatti a fidare del buonsenso...

Beatrice, intanto, si è rivolta a Dante, e parla. Dice: «Qui sarai tu poco tempo silvano; / e sarai meco sanza fine cive / di quella Roma onde Cristo è romano».


E non è terzina da poco. La santa donna sta notificando solennemente a Dante, che è destinato ad assumere la cittadinanza eterna della Roma celeste sinonimo denso della Gerusalemme celeste --, insomma, a rendersi con lei concittadino di Cristo in paradiso, dopo breve dimora in selva: che sarà forse «la selva erronea de la nostra vita» (come scritto in Convivio), magari con la giunta del purgatorio, piuttosto che non il bosco dell’Eden, dove per le anime di transito è previsto, comunque, un soggiorno brevissimo.


«Però,» soggiunge Beatrice «(per il fatto, cioè, di essere candidato alla beatitudine eterna) in pro dell’umanità corrotta e trista al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là, fa che tu scrive.»


«Quod vides, scribe in libro» si sente ingiungere da una gran voce Giovanni Evangelista, disponendosi a visionare i tenebrosi prodigi dell’Apocalisse. Nella voce di Beatrice un sommario nesso causale (però = perciò) salda l’elezione del pellegrino all’investitura del poeta sacro. E profila una risposta maldestra e provvisoria alla vecchissima domanda: «Ma Dante questo viaggio d’oltretomba, crede di averlo fatto per davvero? O, almeno, è questo quel che vuol farci credere?».

Sì: Dante vuol farci credere di essere stato scelto non per merito suo ma per gratuita predilezione celeste a viaggiare i tre regni dei morti, in tanto in quanto ne avrebbe poi reso compiuta e proficua testimonianza a noi lettori peccatori. E dunque la testimonianza messa a verbale giustificherebbe il viaggio, certificandolo, e comprovando di conserva l’abilitazione alla salute eterna del pellegrino poeta.

Vuol farci credere, d’accordo... ma lui, Dante, era così pazzo da credere davvero?... Questo non lo sapremo mai. Contentiamoci di sapere che Dante è l’unico pazzo al mondo che abbia creduto di scrivere la Divina Commedia; e che possiamo giurarci era radicalmente convinto che Dio, la Divina Commedia, l’avesse letta ben prima che lui la scrivesse: da sempre.


Nell'affascinante, benché difficile, canto XIII del Paradiso il beato Tommaso ammonisce «Se hai capito in modo chiaro e distinto, tanto ti valga di lezione per tutte le volte che un problema ti sfugge, ad andarci con i piedi di piombo.»

E commutando con il monito la teoresi in invettiva, prorompe: «Infatti... infatti è proprio all'ultimo stadio della stupidità chi, privo di adeguato discernimento, si spericola a sputar sentenze in un senso o nell'altro, se dico sì è sì, se dico no è no... che poi, quando un giudizio avventato ti ha fatto prendere un abbaglio, capita spessissimo che ti ci affezioni, e l'affezione ti impedisce di ragionare.

«Chi va a pesca di verità senza conoscere il mestiere, è inutile che si metta per mare, anzi, peggio che inutile, perché non torna a riva tale e quale è partito (a mani vuote, cioè, come il pescatore inetto): lui torna con un carico di complicate scemenze.

«Esempi? Il mondo è pieno... Prendi Parmenide, Melisso, Brisso (per quel che ne sapeva Dante, ai primi due, di scuola eleatica, Aristotele rimproverava princìpi erronei ed argomentazioni scorrette; a Brisso, o Bryson, allievo di Euclide, i tentativi malriposti di quadrare il cerchio);

prendi Sabellio (noto contestatore, nel III secolo, delle «tre persone in divina natura»), Ario (o Arrio, contestatore famosissimo della natura divina del Figlio, nel IV secolo) e tutti quegli insensati che operarono sulle Scritture come spade, a render torti li diritti volti, cioè sfigurandone la vera fisionomia»... se di taglio, sfregiandola, o riflettendola male sul piatto della lama, sa Tommaso; che aggiunge: «Aggiungo: la gente si guardi dalla spocchia di tranciar giudizi ed anticipare verdetti, come chi iscrive in bilancio gli introiti del raccolto prima che sia maturo. Ho ben visto, per tutto l'inverno, il pruno irrigidito dal gelo e feroce di spine, poscia portar la rosa in su la cima; e una nave correre il mare, ho visto, dritta e spedita per tutta la rotta, e naufragare da ultimo all'imboccatura della rada.

«Non si pensino sora Berta e sor Martino, che a loro basti sapere che uno ruba e un altro fa beneficenza, per vederli dentro al consiglio divino (con gli occhi di Dio giudice, cioè): ché il ladro può salvarsi, e il benefattore andare all'inferno».

E il beato Tommaso ha concluso. Ha concluso, lui Doctor Angelicus o, a scelta, Angelus Scholae, Aquila Theologorum, e via che vai, irridendo alla saccenteria volgare.

E non che in materia di giudizi morali applicati alla predestinazione esistano a questo mondo criteri di previsione ponderati, saccenterie più accreditate e nobili. No!

Dobbiamo dunque pensare che Dante creda (o pretenda di farci credere) che condanne e premi eterni registrati nel suo libro non promanino dalla sua propria fantasia morale rendendola esecutiva per l'eternità, ma siano stati irrogati per davvero dal tribunale celeste?

Senza dare per risolto l'ossessivo quesito che ci portiamo dietro dall'inizio dell'Inferno, sarà ancora prudente attenersi al giudizio di un dottore dell'Oklahoma, secondo il quale la «fiction» della Divina Commedia consiste nel fingere di non essere una «fiction». E Tommaso qui sta spiegandoci appunto come sia, oltre che palesemente vero, arcanamente plausibile, che, ad esempio, un pio papa canonizzato di fresco (come Celestino V) trotti sul cornicione dell'abisso, e che un filosofo d'irremovibile laicità (come Sigieri di Brabante) sia volato dritto in paradiso, e gli sfolgori accanto, a lui, Tommaso.

Stanchi e rassicuràti, non ci resta che ringraziarlo per la sbalorditiva lezione di Teologia cui ci ha consentito di assistere nella Sorbona celeste; per il finale impetuoso e discorsivo che vi ha apposto, a mitigare la fatica di noi studenti; e anche per quel frammento di parodia dantesca con cui pare ammicchi all'onesto lettore, che, incapace di padroneggiare tutte le scienze di questo e dell'altro mondo, speri di andar lo stesso in paradiso...



Nel XXXI di Paradiso, a rimpiazzare Beatrice per gli ultimissimi adempimenti, si è presentato san Bernardo. Ed è sacrosanto domandarsi perché mai. Tanto più che, a tutta prima, le prestazioni del santo vestito di candido non sembrano eccedere le competenze della ragazza in rosso.

Le note agiografiche accreditano a Bernardo ottimi requisiti di base: abati e santi d'epoca lo proclamano «alunno intimissimo di Nostra Signora» e «massimo amatore della Vergine»; il Breviario Romano lo dipinge «talmente dedito alla contemplazione, da non far praticamente uso dei sensi». E dobbiamo convenire che la doppia competenza lo rende eccezionalmente idoneo a caldeggiare l'intercessione della Vergine Maria, a che Dante sia ammesso alla contemplazione diretta di Dio.

Ma chi si domandasse laicamente come mai per quell'ufficio sommo Dante abbia scelto proprio lui, proprio nella biografia e bibliografia del santo spulcerebbe più d'un motivo di perplessità.

Nato a Fontaine-lès-Dijon di nobile casato borgognone l'anno di grazia 1091, a ventidue anni Bernardo veste la cappa bianca delle «cicogne di Cîteau»; a ventiquattro fonda l'abbazia cistercense di Clairvaux nella Champagne. Di lì versa sulla cristianità per poco meno d'un quarantennio il fascino soave dell'asceta, il prestigio del grande intellettuale, le direttive del capo carismatico.

Patrocinerà l'assunzione al soglio di almeno due papi; detterà la condanna conciliare del razionalismo di Pietro Abelardo, come del suo culto delle immagini, contro cui tempesterà col furore dell'iconoclasta; si batterà con pari accanimento per intimare al clero la pratica dell'ascesi e della povertà evangelica, e ai potenti della terra il rispetto della giurisdizione temporale della Chiesa; patrocinerà l'istituzione dell'ordine dei Templari e ne redigerà la regola; bandirà una crociata (la seconda). Amareggiato non poco dal suo esito catastrofico, morrà nel 1153.

Dante Alighieri, che nell'Epistola a Cangrande menziona il suo trattato De Consideratione, a documentare l'amnesia che consegue all'«excessus mentis», secondo Sermonti, conosceva certo di prima o seconda mano altre opere mistiche di Bernardo, sebbene non vi siano prove al riguardo, dato che lo stesso Sermonti ammette che il poeta non le menziona mai.

Tuttavia l'azzeramento dell'identità, la «liquefazione dell'anima in Dio», che il santo borgognone persegue sistematicamente come traguardo dell'esercizio contemplativo, non si può dire come ben sappiamo che seducano più di tanto il poeta fiorentino. Il suo io, levitando, semmai si dilata, s'indìa, non si annienta.

Curioso pertanto che Dante abbia scelto san Bernardo come sua guida date le discrepanze di opinioni.

E d'altronde sul piano etico per tacer del politico Dante si mostra alquanto refrattario a parecchie idee forza che la tradizione francescana eredita proprio da Bernardo: in particolare, ad una, fortissima, la misericordia per le debolezze del prossimo nostro.

Quanto al culto della Vergine, possiamo star sicuri, amico mio, che le famose meditazioni bernardine sul Salve Regina figurassero nei grami scaffali del poeta ramingo. Ma l'acribìa dottrinale con cui il grande monaco disquisisce sui temi mariologici (contestando, fra l'altro, fieramente l'immacolata concezione, e disattendendo l'assunzione corporale della Vergine) non ha riscontro nell'orizzonte mentale e sentimentale di Dante (e non è detto che in questo caso il santo ne sapesse più di Dante e di qualsiasi buon cristiano). La devozione di Dante per Maria e per il suo corpo di mamma ce ne parla da tre cantiche è talmente oblativa, da non ammettere sottigliezze, a rischio di incorrere nella credulità degli ignoranti.

Di lei, in fin dei conti, Dante crede le dolci assurdità che credono tutti i credenti, con l'abnegazione cavalleresca e visionaria del vecchio poeta che è. Quando la pensa, e mane e sera, non sa che pregare contrito e piangere felice.

Senza dilatar troppo spunti polemici circoscritti ed eventuali (apprezzabile, comunque, quello di assimilare il monaco iconoclasta alla Veronica, «vera icon»...), Sermonti dipana i dubbi spiegando che sarà dunque bene limitarsi ad abilitare san Bernardo alla sua specialissima mansione, in forza dei titoli canonici di contemplatore sommo e suddito zelantissimo della Vergine: titoli che peraltro il nostro canto si fa scrupolo di confermare alla sua carità pugnace e alla sua dottrina suadente. E aggiunge «Doctor Mellifluus lo chiamavano: e quel pio appellativo, dopotutto, sembra docilmente assimilarlo all'immagine strana d'un angelo che versa miele nei fiori», proprio come le api immaginate di primo acchito da Dante accanto al fiume di luce apparsogli all'ingresso dell'Empireo.

Tuttavia sembra proprio che san Bernardo sia santo prediletto di Dio e non del poeta fiorentino.


Nella Divina Commedia, che è un testo sacro, cioè un testo pensato da Dio (il cui epiteto è "Colui che non mente mai"), la donazione di Costantino, fatta a vantaggio di Papa Silvestro, viene menzionata, dando per assodato che sia effettivamente avvenuta, nell’Inferno, canto 19, vv. 115-117, Purgatorio, canto 32, vv. 124-129 e 136-141, Paradiso, canto 20, vv. 55-57. Il problema è che Lorenzo Valla, un umanista italiano, dimostrò la falsità della donazione di Costantino attraverso una rigorosa analisi filologica.

Ciò è dovuto al fatto che, come indicato nello stesso libro di Valla "La falsa donazione di Costantino", seppure la donazione di una parte dell'impero di Costantino non ebbe mai luogo, furono però davvero donati dall'imperatore alcuni beni privati, oltre al palazzo lateranense. A corrompere l'istituzione ecclesiastica furono pertanto sufficienti i beni privati donati dall'imperatore.

Il documento della donazione di Costantino era un falso redatto molto probabilmente nell'VIII secolo dalla cancelleria pontificia di Stefano II per dare un fondamento storico-giuridico alle pretese del papato in Occidente.

Lorenzo Valla scrisse l'opera "La falsa Donazione di Costantino" nel 1440. L'opera fu pubblicata solo nel 1517 con una dedica provocatoria indirizzata a Papa Leone X dall'umanista tedesco protestante Ulrich von Hutten.

Segue il testo, tratto dal libro di Valla, da cui è possibile apprendere che venne fatta realmente una donazione da Costantino, seppure di minore entità:

«34. Ma è tempo ormai, per non essere prolisso, dare il colpo di grazia alla causa degli avversari già malridotta e quasi straziata. Tutte le storie, quelle almeno che meritano tal nome, dicono che Costantino fosse cristiano fin dalla fanciullezza insieme al padre Costanzo, molto prima – dunque – del pontificato di Silvestro, come – ad esempio – Eusebio, scrittore di una Storia Ecclesiastica, che Rufino, non ultimo fra i dotti, volse in latino aggiungendo due volumi intorno ai suoi tempi; tanto Eusebio che Rufino vissero ai tempi di Costantino. Aggiungi la testimonianza anche del romano pontefice, che non fu presente, ma fu il promotore del battesimo, ne fu non testimone ma autore; e narrò non fatti di altri ma suoi. Parlo di papa Melchiade, cui seguí immediatamente, come papa, Silvestro; egli cosí disse: «A tanto è giunta la Chiesa che accorrono alla fede di Cristo e ai suoi sacramenti non solo i popoli, ma anche gli imperatori romani, che tenevano il governo di tutto il mondo. Tra essi per primo il religiosissimo Costantino, seguendo la vera fede, diede il permesso a tutti i suoi sudditi non solo di diventare cristiani, ma anche di fabbricare chiese e di donare beni alle chiese. Infine lo stesso ricordato imperatore diede immensi doni agli ecclesiastici e iniziò la costruzione della prima chiesa dedicata a san Pietro; lasciò il palazzo imperiale e lo diede in godimento a san Pietro e ai suoi successori». Melchiade non dice che da Costantino sia stato donato altro che il palazzo lateranense e dei beni, dei quali Gregorio I fa menzione spesso nel suo Epistolario. Dove stanno coloro che non vorrebbero che noi revocassimo in dubbio se sia valida o no la donazione di Costantino, quando essa avvenne prima di Silvestro e concerne solo beni privati?»


Dante vede la sua effigie nell'immagine di Dio non perché Dante, in quanto uomo, sia Dio o parte di Dio, ma perché l'autore della Divina Commedia è proprio Dio. Il Creatore riconosce se stesso nell'ultimo del Paradiso, offrendo un vero e proprio colpo di scena al lettore che scopre solo alla fine chi sia il vero autore. Il libro sacro è stato pensato da Dio e scritto materialmente da Dante Alighieri.


Alcuni scettici insistono sul fatto che il viaggio narrato nel libro sia solo metaforico, che gli eventi in esso narrati siano esclusivamente allegorici, invece è tutto vero.Quindi sono esistiti ed esistono gli indovini, esiste la magia reale, le stelle del firmamento sono fisse ed influenzano il carattere delle persone nate su questa Terra. Esistono davvero Inferno, Purgatorio e Paradiso.